
BUONE VACANZE … RITORNO A SETTEMBRE!
Ciao e Benvenuto a Lavorare col Sorriso!
Se sei iscritto al sito avrai notato che da fine maggio non scrivo più articoli.
Motivi personali e professionali hanno limitato ultimamamente la mia possibilità di farlo, ma, allo stesso tempo, mi hanno consentito di sviluppare tante nuove idee da mettere a frutto anche a tuo vantaggio in futuro, e alla luce di nuove esperienze fatte!
Ci tengo quindi a continuare a coltivare questo mio “giardino” di riflessioni per aiutare altre persone a vivere un tempo lavorativo che sia di maggiore qualità, e auguro a te lettore di passare un tempo, di vacanza o no che sia, fatto di sorrisi, voglia di entusiasmarti per persone/situazioni nuove e voglia di giocare con la vita e le infinite sorprese che riserva!
Tornerò a scrivere da metà settembre … per cui .. questo è solo un arrivederci!
A presto!
Federica
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FARE CARRIERA = VALERE? LIBERA NOS A MALOS!
Ciao Bentornato a Lavorare col Sorriso!
Oggi ti parlo di fare carriera e di una prigione mentale comunemente diffusa, e fonte di grandi mal di pancia, per chi lavora in una azienda: quella di sentirsi nullità/falliti qualora le aspettative di diventare manager/capo/quadro/dirigente fossero disattese. Voglio liberarti da questo male con una riflessione coraggiosa. Seguimi!
Questo articolo nasce dall’ osservazione di molte persone che vivono male e con grande senso di sconfitta il fatto di non aver fatto carriera o averla fatta parzialmente rispetto ad obiettivi più ambiziosi.
Attenzione: ho usato volutamente la parola FARE carriera, ossia il manager/capo/quadro/dirigente ma non sono sicura che sia scontato coglierne la sottile differenza.
Tu sei. Punto. Poi il tuo essere si manifesta nel mondo attraverso tanti ruoli: impiegato (a qualsiasi livello), madre/padre, moglie/marito, partner, sorella/fratello, amico/amica e così via.
Ha mai pensato alla questione in questi termini? Se no, è bene che cominci a farlo.
La convinzione diffusa che fare carriera in automatico significhi godere di un riconoscimento di valore che è appannaggio esclusivo di chi ha conseguito un qualche titolo durante la sua vita lavorativa e di sentirsi in automatico persona “da poco” in caso contrario è una grande stupidata.
L’equazione presente nella mente di molte persone è appunto fare carriera = valere/avere la certificazione “sono in gamba”. Le implicazioni negative di questa convinzione spesso sono di non poco conto.
Intanto allora ti lancio subito una provocazione: se la tua mente è abituata a pensare così, il tuo istinto e il tuo cuore, cosa ti dicono?
Quale sarebbe un modello di uomo/donna in carriera ideale?
Sposo il punti di vista di Marco Montemagno : un “vero leader” è una persona animata da passione per il suo lavoro, consistenza (ossia persona che produce risultati fattivi e concreti persistenti), che è capace di emozionare e coinvolgere le persone in un “noi”, che è imperfetto come tutti gli umani e non ha bisogno di nasconderlo.
Chi può fare carriera in azienda?
Potenzialmente chiunque.
In concreto una cerchia ristretta di persone.
Per quali motivi alcune persone fanno carriera ed altre no?
Normalmente nella generalità dei casi fare carriera dovrebbe implicare la presenza di questi fattori:
a) una persona ha costruito nel tempo i presupposti per fare carriera producendo risultati consistenti e durevoli. A questo proposito ti rimando al mio articolo sulle differenze fra un buon manager e un fuffa manager.
b) una persona si è trovata al posto giusto, nel momento giusto, con il capo giusto rispetto alle dinamiche aziendali, ossia ha avuto le circostanze ambientali “a favore” affinchè quanto seminato produca i suoi frutti.
c) hanno parenti/cugini/amici che “contano” …
Vero è anche che aver avuto le circostanze a favore non necessariamente significa che quella persona avesse capacità e qualità manageriali. Potrebbe essere si come no.
Cosa voglio dire?
Voglio dire che fare carriera non necessariamente è sintomatico di una persona “che vale”.
Potrebbero esistere molti manager che semplicemente, hanno fatto ricorso ad altri mezzi per fare carriera (vedi punto c))
Mentre essere persone di valore è sicuramente un plus, un “vantaggio competitivo” per fare carriera, non vale il viceversa.
Fare il manager non è condizione sufficiente per potere asserire con certezza che una persona, automaticamente, possa anche considerarsi di valore, con buone qualità e capacità professionali ed umane che ad altri non sono accessibili o riconosciute.
Ora, se sei una di quelle persone che “vive male” il suo “non avere fatto carriera” o che vive male le carriere altrui, ti invito a domandarti:
in che modo queste persone hanno fatto carriera? Considerare l’ipotesi che abbiano effettivamente”seminato bene”?
Pensi che gli altri ottengano risultati sempre senza faticare o impegnarsi?
Se conosci esempi positivi di persone che hanno fatto carriera, perché quello che pensi di meritare non lo vai a cercare altrove, se nel tuo contesto attuale non ti viene riconosciuto? Non dirmi “ehhh ma c’è la crisi”.
Fai prima ad ammettere che non hai voglia di alzare il sedere e metterti in discussione. Chi cerca, prima o poi, trova. Te ne parlo anche nel mio articolo Bastardi senza gloria.
Diversamente, perché pensi a te stesso/a in modo così impietoso come se tutto il tuo valore umano possa essere riducibile ad un titolo?
Il lavoro è un mezzo. Per vivere, per realizzarsi.
Ma se tu ti identifichi tutto intero con il tuo lavoro, le possibili o concrete mancate soddisfazioni lavorative andranno ad intaccare tutta la tua identità di persona.
Dimenticandoti che tu hai molti altri mezzi, ed eventualmente anche posti, per viverti come una persona di valore, ed usare le tue risorse e qualità.
Molto spesso noi umani tendiamo a darci un valore in funzione di qualcosa di “esterno” alla nostra persona che ci restituisca una immagine socialmente accettata e riconosciuta come di successo.
Molto spesso rischiamo di pensare che ammirazione, stima, amore da parte di famigliari e amici sia strettamente connessa e ottenibile solo a condizione di “essere qualcuno”.
Non sto tentando di promuovere una società cosparsa di Grandi Lebowsky (personaggio peraltro che mi suscita una enorme simpatia), ma neanche di persone ossessionate dalla carriera al punto da vivere troppo male il mancato raggiungimento di un certo traguardo di carriera sperimentando frustrazione e auto-denigrazione oltre il dovuto.
Questa prigione mentale causa: disagi emotivi, nevrosi, disturbi psicosomatici, squilibri in altri settori della vita, senso perenne di inadeguatezza.
In preda a queste forma malsane di competizione/invidia è possibile assistere nelle aziende alle più alte manifestazioni di bruttura umana e, talvolta, anche di fantozziana maniera.
Puoi leggerti a questo proposito anche il mio articolo “Potere è piacere?”
Quindi, tornando a noi, se fai parte di queste persone ti invito a domandarti: ma questa carriera quanto è importante per te? Cosa significa carriera per te?
Ed è importante per te, o per le persone che ti circondano? Stai cercando da una vita di soddisfare aspettative tue o di altri?
Fare carriera che vantaggi insostituibili ti porterà? Potresti ottenerli in altro modo?
E il fatto che questa carriera non sia come tu la vuoi, che conseguenze ha su di te? Che pensieri fai verso te stesso?
Perché fai dipendere interamente il tuo valore dalla carriera?
Perché tu pensi di poter esser “qualcuno” solo in funzione di una qualifica che qualcuno può scegliere come no (e per mille motivi indipendenti da te) di non riconoscerti?
Tutte le persone in carriera che conosci sono esempi di doti morali, qualità manageriali, capacità del tutto esclusive e non replicabili?
E se ti paragoni ad altri, a che scopo lo fai? In che modo un risultato eventualmente ottenuto da un’altra persona, può condizionare la stima che hai di te stesso?
E soprattutto, quando ti paragoni ai successi di altri, lo fai considerando questi altri nella loro interezza, o solo relativamente ad alcuni aspetti?
Sei incline a paragonare sempre i lati negativi della tua persona o situazione lavorativa con quelli positivi degli altri?
Non pensi che sia un modo parziale di guardare le cose? Perché allora non paragonarti agli altri comparando sia i lati positivi che quelli negativi di te e della tua situazione lavorativa, rispetto a quelli positivi e negativi degli altri?
Spero che questa riflessione ti sia servita a fare un po’ di chiarezza dentro te stesso e magari a liberarti di qualche fardello mentale inutile.
Qualora poi tu voglia esercitarti a guardare in modo diverso altre tipologie di pensiero che avvelenano la mente ti consiglio di leggere i miei articoli Pensieri negativi sul lavoro: liberati dal loro veleno Parte I – Parte II e Parte III.
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Grazie
Federica Crudeli

COLLEGHI DIFFICILI E SOPRUSI IN UFFICIO: LI GESTISCI O LI SUBISCI?
Ciao e Bentornato a Lavorare col Sorriso!
Oggi ti parlo di colleghi difficili che compiono angherie e prepotenze in ufficio e ti guido in una riflessione per capire come “salvarsi” dai loro soprusi.
Prendo spunto da un commento che ho ricevuto da una lettrice (che ringrazio) per affrontare il tema delle relazioni spinose con colleghi difficili a vantaggio di tutti coloro che in questo momento hanno un sentire simile a quello della persona che gentilmente sta dando a me e tutti coloro che leggono, l’opportunità di guardare alle cose in modo diverso.
La lettrice scrive “vorrei lasciare il lavoro perché la moglie del mio titolare , mi rovina l’ esistenza, ho il terrore di questa persona , sono disperata perché mi sento una fallita e sottomessa da una persona che non ha neanche 1 centesimo delle mie competenze ….usa toni altezzosi e minacciosi e io me la faccio sotto”.
E’ bene fare una riflessione, indipendentemente dalla posizione in azienda dei colleghi difficili uomo/donna che agiscono un comportamento simile ed indipendentemente da chi sia il soggetto uomo/donna che “subisce”.
La farò in un modo singolare, ossia analizzando le parole usate da questa persona, partendo con una considerazione che è: le parole sono solo la punta di un iceberg di ciò che noi viviamo più nel profondo.
Le parole che usiamo per comunicare in superficie dicono molto di noi, e di come viviamo le situazioni, e di quanto a volte ognuno di noi scelga di essere vittima di qualcuno, senza nemmeno accorgersene.
Tu dirai: e chi è che sceglie di essere vittima? Deve essere un matto! Ebbene si, in realtà in certe situazioni siamo noi a scegliere di essere vittima, del tutto in buona fede.
Seguimi e capirai di cosa parlo.
“La persona X mi rovina l’esistenza”: cominciamo con il riesumare il concetto di responsabilità di cui ti ho parlato molte volte, ossia l’abilità di risposta ai contesti che è in nostro potere agire.
Qualsiasi cosa facciamo, la scegliamo, compreso quella di farci rovinare l’esistenza.
Non sto dicendo che la persona X sia “santa”, sto dicendo che il potere di decidere quanta importanza è giusto attribuire ad una persona str***a è nostro.
Solo noi possiamo decidere se una persona è importante al punto di meritare i nostri struggimenti, i nostri pensieri, le nostre energie mentali che poco potranno a cambiare il/la st***o/a di turno.
Non sto dicendo che sia facile farsi scivolare da dosso le nefandezze degli altri. Sto però dicendo che fino a quando noi non riconosciamo il pezzo di responsabilità che abbiamo nel contribuire a rinforzare queste dinamiche malsane, mai ne usciremo fuori.
Ci sono persone che si nutrono (e qui potremo fare un trattato di psichiatria :)) degli abusi mentali sugli altri. Ci godono.
E guarda caso queste persone hanno presa proprio su una particolare categoria di persone: quelle che si fanno “braccare” in questa dinamiche e restano remissivi subendo in silenzio.
Se il/la st***o/a di turno capisse di non avere alcun potere, smetterebbe molto probabilmente di fare quello che fa, rivolgendosi a qualcun altro.
“Ho il terrore di questa persona”: la parola “terrore” è carica di emotività, ed evoca a me, e credo anche a chi sta leggendo, qualcosa di cupo e terribile.
Vivere nel terrore come se fossimo in guerra e dovessimo morire da un momento all’altro o come se fossimo di fronte alle minacce di un animale feroce o di una persona armata che ci vuole uccidere, significa creare una condizione di stress per il corpo, che a cascata per difesa produce sostanze chimiche, fra cui la noradrenalina, che “inquinano” tutti nostri tessuti.
Il nostro corpo di fatti è concepito per attivare dei meccanismi di difesa utili in caso di pericolo reale, ma sono gli stessi che si attivano anche nei casi in cui il pericolo sia solo una nostra percezione mentale, a causa di “stressor” di minore entità.
In questo caso “lo stressor” sarebbere il comportamento vessatorio del collega difficile in questione.
Il problema è che se noi non ci abituiamo a distinguere e gestire le fonti di stress in base al livello di entità, ci intossichiamo di continuo l’organismo.
Ecco perché lo stress ha effetti cosi devastanti su di noi. Perché lo attiviamo a sproposito!
La domanda da porti in questo caso è: possibile che un collega difficile abbia non solo il potere di rovinarmi l’esistenza ma di farmi vivere uno stato di terrore del tutto avulso dalla realtà?
Cioè, in che modo offese/minacce/soprusi verbali generano in te stati emotivi così sproporzionati da attivarti meccanismi chimico/fisici adatti a contesti di reale pericolo di sopravvivenza?
Quali pensieri scatenano queste emozioni? Rischi davvero la vita? Se si, mi auguro tu faccia una denuncia.
Se no, perché non imparare a sentire, accettare e gestire questa carica di emotività in modo meno dannoso per te stesso? Come? Pensando, ogni volta che ti sale il terrore, che in realtà non c’è nessuno di fronte a te che tenti di ucciderti realmente.
“Sono disperata perché mi sento una fallita”: essere disperati significa non avere più speranze.
In che cosa? Sul lavoro? In tutti gli aspetti della vita? Tutti tutti?
Cioè il fatto che un solo aspetto della vita sia negativo genera una disperazione nera che contagia tutta la vita? Al punto di sentirsi falliti?
Che relazione esiste fra un collega difficile e il nostro considerarci dei falliti?
Non potrebbe essere che noi siamo solo persone, con pregi e difetti sicuramente, che hanno poco a che fare con il/la str***a di turno?
Il fallimento non esiste. E’ solo nella nostra testa. Esistono gli sbagli. Esistono gli errori. Normalmente compiuti in una specifica circostanza e in un dato momento.
In che modo errori e sbagli, del tutto umani, possono diventare la causa di un intero fallimento? Ha senso?
E la parola “sottomessa”? Dove la mettiamo?
Cioè il collega difficile ci sottomette nel senso che ci sale fisicamente sulla testa o che ci costringe ad inginocchiarci? Oppure è un senso di sottomissione che esiste solo nella nostra testa perché noi, fra tanti modi di sentire, scegliamo di sentirci sottomessi?
Ad esempio, scegliere di essere incazzati neri di fronte ai soprusi altrui non sarebbe un modo di sentire più costruttivo e atto a definire dei confini che non vogliamo siano sorpassati da nessuno?
La domanda in questi casi è: la collera, quel sano “sbottare” di rabbia fulminea ed istantanea che serve a difendere se stessi, i propri confini e la propria dignità, perché non scatta? Dove è stata sepolta? Per quale motivo?
Per la vergogna? Perché qualcuno ci ha insegnato che arrabbiarsi non è socialmente accettato?
Faccio presente che in alcuni casi, la rabbia è l’unico modo per affermare i proprio diritti. E che l’aggressività, tanto demonizzata nella nostra civiltà e soprattutto negli uffici, deriva dal latino “ad – gredire = andare verso” ed è una componente del tutto sana nella vita di chiunque se espressa nei contesti giusti, come in questo caso.
Quello che mi colpisce delle parole di questa persona è la percezione di un senso di inferiorità che inconsciamente autorizza l’altro soggetto ad approfittarsene.
Che ci piaccia o meno, ognuno di noi è trattato così come sceglie di farsi trattare.
Lo so che qualcuno dei lettori stenta a crederci, ma è così.
Qualcuno ti denigra/offende/schernisce/ violenta psicologicamente?
Ecco se fino a oggi non lo hai fatto, prova a rispondere, e non con la sottomissione, con assertività.
Non serve necessariamente urlare, o venire alle mani. Basta anche usare un tono di voce fermo, uno sguardo fermo, e delle parole ben precise che possano significare qualcosa di simile a “non permetterti mai più di trattarmi così, e la prossima volta che hai qualcosa da dirmi gradirei tu usassi modi più rispettosi ed educati”.
Se hai delle resistenze o paure a comportarti così, è bene che tu investa de tempo a capire il perché.
Perché ti viene più facile subire che rispondere con assertività?
Dove e quando hai imparato a fare così? Cosa ti spinge a farlo ancora? Cosa accadrebbe se tu smettessi?
Il senso di sottomissione lo senti solo in uno specifico rapporto o come un atteggiamento che in generale ti appartiene nella vita con chiunque?
E se esistono rapporti in cui invece reagisci in modo sano e tale da difendere i tuoi confini e la tua dignità, cosa c’è di diverso nelle due situazioni? Cosa puoi “portare” da una situazione all’altra per ridefinire un nuovo equilibrio nel rapporto malsano?
Per esperienza personale, posso dire che anche a me è accaduto di avere a che fare con persone simili e che se quelle persone vengono messe al loro posto, normalmente, vanno a cercare altre vittime.
Cosa aspetti quindi a tirare fuori le unghie e pretendere rispetto per la tua dignità di persona?
Riassumendo, la realtà sottostante alle parole iniziali è più probabilmente la seguente: “vorrei lasciare il lavoro perché mi lascio rovinare la vita dalla la moglie del mio titolare , scelgo di provare terrore verso questa persona, scelgo di essere disperata perché scelgo di sentirmi una fallita e sottomessa nei riguardi di una persona che non ha neanche 1 centesimo delle mie competenze ….usa toni altezzosi e minacciosi e io me la faccio sotto”.
Mi auguro che la riflessione sulle singole parole che ho fatto e su quanto tali parole celano, possa essere un pungolo per trasformare questa frase in qualcosa di simile a quanto segue:
“ho deciso di smette di dare tanta importanza alla moglie del mio titolare , perché il mio essere, il mio valore, la mia competenza valgono a prescindere dai soprusi che questa donna tenta di attuare nei miei riguardi. Io non ho alcuna paura di questa donna perché è umana come me, con pregi e difetti come me, e non ho alcun motivo di temerla al punto di lasciare che le mie giornate siano inquinate da lei. Imparo ad affermare i miei diritti e la mia dignità, e la prossima volta che userà toni altezzosi e minacciosi le farò capire con un bel discorso che né lei, né nessun altro, possono permettersi di trattarmi come uno zerbino.”
Se non credi che un bel vaff*****o espresso con toni fermi ed educati possano sortire l’effetto di allontanare questo soggetto negativo, prima di tirare i remi in barca, fallo! Poi mi saprai ridire l’effetto ottenuto.
Ho motivi e precedenti sufficienti per dire che funziona.
Non sto dicendo che i colleghi difficili cambiano. Ma se cambi tu il tuo modo di rapportarti a loro, intanto il loro effetto su di te diminuirà moltissimo, in secondo luogo è altamente probabile che costoro rivolgano le loro intenzioni negative altrove.
Se poi tutti quanti prendessimo il coraggio di imporci con una sana aggressività verso questi soggetti, il mondo ne sarebbe meno pieno, perché non avrebbero più appigli a cui aggrapparsi.
Inoltre è utile osservare in questi casi se il collega difficile usa gli stessi modi solo con noi o con tutti. Perché se con altri non lo fa, è interessante osservare ed imparare da altre dinamiche relazionali.
Da ultimo, i sentimenti riportati di terrore, disperazione, fallimento, sottomissione, sono indicativi di una persona che ritorce contro se stessa, auto-demolendosi senza accorgersene, tutta l’aggressività che non riesce a manifestare fuori in modo sano. Come se fosse colpevole di qualcosa.
Una persona non è tanto tenuta a portarci rispetto perché siamo bravi e competenti, quanto perchè siamo esseri umani con pieno diritto di esistere a prescindere da cosa sappiamo fare e a prescindere dal fatto che qualcuno là fuori ce lo riconosca o meno, padri, madri e partner compresi.
Ti ho già parlato in un mio precedente articolo di un’ altra particolare categoria di colleghi difficili: i melliflui o voltafaccia e ti rimando a leggere questo articoli qualora tu abbia a che fare anche con questa tipologia di persone cliccando a questo link : melliflui Parte I .
Un sentito abbraccio di incoraggiamento a chi prende il coraggio in mano e sceglie di liberarsi una volta per tutte da queste dinamiche malsane!
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Federica Crudeli