
CAPO ACCENTRATORE: 6 PASSI PER CONQUISTARE AUTONOMIA!
Ciao e Benvenuto a Lavorare col Sorriso
Hai un capo accentratore? Ti senti demotivato, non visto, non valorizzato, non apprezzato, infastidito, irritato dal suo atteggiamento? Passi le giornate a scarto ridotto perché hai meno cose da fare di quello che vorresti? Ecco 6 passi da seguire per guadagnarti la sua fiducia e maggiore autonomia.
[Tweet “”Conosci il tuo nemico.” – cit. Sun Tzu”]
La prima cosa che puoi fare, prima di agire con i 6 passi che ti consiglio al punto n° 4 dell’articolo, è conoscere il tuo “nemico” e le ragioni che lo spingono ad agire così: disporrai di una chiave di lettura diversa con la quale guarderai diversamente soprattutto te stesso…anche se può sembrarti strano!
Premessa: capire il capo accentratore, non significa giustificarlo!
1 – Chi è un capo accentratore?
Un capo accentratore è mediamente caratterizzato da questi comportamenti:
a) di 100 cose che ci sono da fare, in sostanza ne fa circa il 70%, curandole direttamente lui nella maggior parte degli aspetti, e quelle poche attività che delega comunque non possono sfuggire la suo controllo;
b) pretende di essere presente a qualsiasi iniziativa che riguardi la sua area di business e se non può esserlo, a malapena delega pochissime persone ma comunque solo stretto controllo e previa sua autorizzazione;
c) non tollera che qualcuno al di fuori della sua area si rivolga direttamente ai suoi collaboratori anche per attività minori. Si sente “scavalcato”;
d) tende ad essere permaloso, nel senso che fargli notare una qualsiasi possibilità alternativa di gestire alcune attività costituisce per lui motivo di “offesa”;
e) tiene la sua conoscenza ed esperienza per se;
f) accetta qualsiasi richiesta gli venga fatta dall’alto, e per soddisfarla prima possibile, la sua struttura è perennemente in sofferenza;
g) lascia ai collaboratori la gestione/esecuzione di attività più routinarie e ripetitive mentre gli incarichi più complessi li gestisce direttamente lui;
h) ha poca cura nel trasferire le attività che cambiano, il contesto in cui si collocano, gli effetti dei cambiamenti in atto.
2 – Gli effetti sulle persone e sul business dei comportamenti del capo accentratore
Questo comportamento genera rallentamenti delle attività e inefficienze, ma cosa ben più grave, la demotivazione di tutti i collaboratori, e conseguentemente, un pessimo clima lavorativo, fatto di lamentele, e aggressività “strisciante”.
Demotivazione che peggiora se questo capo si avvale solo di una/due persone di fiducia per fare, seppure limitatamente, alcune cose più complesse alimentando gelosie, acredine, maldicenze.
Inoltre con un capo accentratore, le possibilità di crescita intese come sviluppo di una maggiore padronanza dell’attività, sono limitate.
3 – Perché ha senso capire cosa si nasconde dietro questo atteggiamento?
Capire cosa si nasconde dietro a questo atteggiamento ti è utile, come ti dicevo sopra, non per giustificare chi, rivestendo un tale ruolo, forse dovrebbe operare in tutt’altro modo, ma per farti guardare alla situazione con empatia da un altro punto di vista che non vede nessun legame esistente fra il comportamento del capo accentratore e le tue presunte o meno capacità.
Ebbene, quali possono essere le motivazioni alla base di un comportamento simile? L’ansia da prestazione esasperata ai massimi livelli, di cui ti ho già parlato nel mio articolo “L’ansia da prestazione lavorativa ti divora?Divorala tu in 5 bocconi”.
L’obiettivo finale dell’accentratore, più o meno consapevole, è preservare il suo potere, la sua posizione, attraverso la continua dimostrazione di meritarsela con la ricerca della perfezione e del controllo totale ansiolitico.
L’ansioso è talmente chiuso nel suo loop mentale tutto fatto di ansia che non si accorge minimamente degli effetti che ha, sia sull’operatività corrente che sui collaboratori: è cieco. Non sente, non vede. Ha a cuore solo se stesso , la sua ansia e la sua ovvia necessità di placarla controllando e accentrando tutto, e questo nulla a che vedere con la volontà di denigrare te e il tuo lavoro.
L’ansia è una bruttissima “bestia”. Se tu “soffrissi” di ansia come lui, e non disponessi di strumenti per farla cessare a monte, faresti la stessa cosa che fa lui. Ad aggravare la situazione c’è il fatto che spesso, il capo accentratore è anche inconsapevole di soffrire di ansia.
4 – Bene, adesso che conosci i motivi di questo comportamento, cosa puoi fare?
Subire in silenzio, o lamentarti con gli altri, se è quello che hai fatto fino ad ora, non credo ti porterà molto lontano. Lo sai vero?
Spesso in queste situazioni si crea un muro del pianto infinito fra colleghi dove di fondo, nessuno fa nulla per cambiare lo stato delle cose, eccetto lamentarsi di gran lena. Il fatto che continuino a farlo in molti, non significa che sia una cosa sensata. E soprattutto, non produce cambiamenti positivi per nessuno, anzi…
Parlaci! Chiedi un colloquio e procedi nel seguente modo:
1) chiedigli un momento adatto per lui, in cui può dedicarti del tempo con serenità. Sembra banale ma non lo è. Ci sono fior fiore di trattative fallite solo per essere state affrontate nel momento sbagliato;
2) preparati prima e con cura il modo giusto di rivolgerti al capo accentratore: se è il tuo capo immagino avrai osservato nel tempo in quale modo è possibile entrarci in relazione bonaria senza farlo surriscaldare subito.
Ti ricordo che potrebbe essere persona dallo scatto di nervoso facile, perché è ansiolitico e suscettibile. Dire cose giuste nella sostanza adottando il modo sbagliato, è l’assicurazione per il fallimento totale.
Osserva le parole che usa più spesso. Osserva cosa lo lascia tranquillo. Osserva cosa gli fa piacere.
Se non conosci quello che gli fa piacere, almeno conoscerai di sicuro quello che lo irrita. Bene. Fai il contrario.
Se qualcuno prima di te ha già tentato di esporgli il problema senza risultato, preoccupati di capire veramente in quale modo gli si è rivolto. Potresti scoprire che non ha ottenuto nulla perché si è posto nel modo meno adatto per quell’interlocutore.
3) comincia col chiedergli che vorresti conoscere l’opinione che ha di te sul lavoro, come stai andando.
Gli dai importanza e considerazione e intanto acquisisci informazioni utili per la fasi successive del colloquio, soprattutto se di te ne ha una buon opinione.
In base a cosa rifiuterebbe quanto stai per chiedergli? Se invece di te non avesse una buona opinione, va da se che prima di passare ai successivi punti, allora hai da capire bene come fare ma in un senso di diverso da quello trattato qui.
4) esprimi chiaramente ed in modo specifico quello che desideri per te nella tua attività volgendo la questione al futuro, senza recriminare troppo sul passato.
Comincia identificando un ambito piccolo in cui vorresti più autonomia. In questo modo introdurrai una “piccola breccia” di cambiamento per lui più facilmente digeribile rispetto alla richiesta di qualcosa di “esageratamente grande” .
Ovviamente un accentratore di punto in bianco non ti darà mai totale autonomia per una cosa che lui ritiene troppo importante.
Se anche tu hai le idee vaghe su quello che vorresti è bene che te le chiarisca prima di parlare. Faresti una pessima figura chiedendo un colloquio per poi non mostrarti capace di esprimere qualcosa di compiuto.
Perciò pensa a tutto quello che vorresti fare, esponilo e chiedigli quale risultato lo farebbe sentire “garantito” della tua buona riuscita.
5) motiva la tua richiesta parlando di te, di come ti senti sul lavoro, sempre in prima persona senza cadere nella tentazione di usare frasi del tipo “tu mi demotivi, tu non mi dai fiducia, tu non mi valorizzi”.
Queste alle sue orecchie suoneranno come accuse. E in effetti lo sono. Perché dal suo punto di vista, molto probabilmente lui sul lavoro bada solo a placare la sua ansia, non a denigrare te.
Prenditi piuttosto la responsabilità delle cose che pensi e senti e usa “io mi sento demotivato, poco valorizzato, non degno di fiducia”.
Evita paragoni con altre persone. Evita anche di calcare troppo la mano su questo aspetto esagerando con le recriminazioni.
6) elenca in modo più descrittivo e fattuale possibile, senza giudizio, i fatti accaduti che sostengono il tuo modo di sentirti e che sono necessari durante il colloquio a fargli comprendere le circostanze che motivano la tua richiesta di maggiore autonomia.
Se segui nel modo corretto questi punti avvierai un confronto civile, rispettoso, cortese, che potrà essere solo costruttivo (sempre se rispetti questi suggerimenti nel modo di parlare) e porterà sicuramente ad un miglioramento, piccolo e progressivo.
Ora, va da se che un capo accentratore in quanto ansiolitico, difficilmente cambierà in 2 giorni quello che fa da anni. Certo è che l’avergli aperto una visione differente dall’unica che conosce (la sua), con una richiesta “piccola” costituisce un precedente.
Certo è anche che se la sua tendenza caratteriale è quella, magari avrai da reiterare periodicamente le tue richieste sempre per piccoli step e con margini via via crescenti di ampiezza.
Ma se riesci a strappargli una fettina di autonomia, e poi nei fatti gli dimostri che sei capace di sostenerla, lui non avrà motivi per negarti un successivo ampiamento di attività anche nella richiesta successiva, dato che lui stesso potrà beneficiare di un carico di lavoro alleggerito.
Resta anche la possibilità di richiedere di cambiare ufficio, in ultima istanza, qualora proprio la situazione si riveli immodificabile.
D’altra parte visto che il capo accentratore tende alla perfezione e controllo di tutto, il fatto che un collaboratore lavori per lui infelicemente costituisce qualcosa di cui occuparsi. Almeno temporaneamente.
Senza contare che se inizi tu a parlare, magari ti seguiranno anche tutti gli altri colleghi (a meno che tu fossi l’unico a vivere questa dinamica). A quel punto, per massa critica, sarà costretto a fare i conti con il fatto che il problema è davvero lui e magari si adopererà per cambiare in meglio.
Nessun capo gradisce di essere considerato tale solo nella forma.
Malgrado la sua reazione non sia prevedibile, di sicuro quando qualcosa “cambia” nella relazione fra parti, cambia anche il risultato. E cambierà in meglio se segui questa strategia.
Ricapitolando, ti ho definito chi è il capo accentratore, che effetti genera sul lavoro, per quali motivi si comporta così, e come introdurre dei piccoli cambiamenti “strappandogli” margini di autonomia progressivamente crescenti guadagnandoti la sua totale fiducia.
Ti è chiaro che il suo essere accentratore non ha quantomeno nulla a che vedere con la tua presunta incapacità?
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Federica Crudeli

CAPO DIFFICILE: IL “VOLTAFACCIA”! 2 STRADE POSSIBILI
Ciao e Benvenuto a Lavorare col Sorriso!
E se ad essere mellifluo e voltafaccia, questa volta, fosse il tuo capo difficile e non un collega qualsiasi? Le cose si complicano, vista la “disparità” di “potere” nel rapporto. Esistono altre strade percorribili per neutralizzarlo, oltre a quelle di cui ti ho già parlato?
Si, almeno altre due… scoprile!
[Tweet ““ Per ogni carnefice c’è una vittima pronta a rendersi tale” – cit. “]
Nel precedente articolo “Colleghi difficili: i melliflui. Cosa fare?” ti ho parlato infatti di una particolare categoria di colleghi difficili, in particolare i melliflui voltafaccia. Ti ho profilato una loro caratterizzazione, e aiutato a capire come li vivi (o subisci), come puoi vederli con occhi diversi e gestirli di conseguenza.
Se il soggetto in questione è il tuo capo, esistono almeno altre 2 strade percorribili e hanno a che vedere con una prospettiva di lungo termine, soprattutto se ti senti in una situazione lavorativa che, pur con tutto il tuo impegno per gestirla, ti sta stretta stretta.
Allarga l’orizzonte temporale!
Il presupposto di partenza che accompagna tutto quello che segue è che il capo difficile mellifluo o voltafaccia sia percepito come tale non solo da te ma anche da tutti i colleghi con cui lavori.
Ti chiedo questa volta di riflettere con un orizzonte temporale un po’ più allargato degli stati d’animo e mentali che in media, il rapportarti con quel capo difficile ti genera: in particolare, quelle negatività che solitamente vivi, da quanto tempo le vivi?
Se da un lato è vero che essere consapevoli di quello che ci accade dentro ci dà uno strumento in più per scegliere più liberamente come rapportarci in modo più vantaggioso per noi stessi, vero è anche che se fino ad oggi, e da molto tempo, non hai mai pensato a qualcosa di simile, è possibile che tu oggi stia sperimentando un generale abbassamento del livello di energia che sta andando ad intaccare anche gli altri aspetti della tua vita.
In fin dei conti lavori minimo 8 ore al giorno, considerando che 8 ne dormi, capisci bene che almeno il 50% del tuo tempo da sveglio è a contatto con un capo difficile che ti genera questi stati d’animo che devi gestire al meglio se non vuoi “soccombere”.
E magari sei più irascibile e nervoso con gli amici e i famigliari, o sei più svogliato, o più apatico, sorridi meno del solito, o comunque ti senti più “spento” e in generale , vivi con un generale senso di insoddisfazione latente perenne e crescente.
In particolare, se pensi a te stesso prima di lavorare in quel contesto lavorativo, noti delle differenze rispetto a come sei adesso nei termini di cui sopra?
Ti ammali spesso? Soffri di disturbi cronici? Da quando sono iniziati i disturbi? Hanno avuto qualche concomitanza con eventi spiacevoli?
Anche qui, ti faccio presente che il corpo manifesta tutto quello che non può essere manifestato altrove. Non lo ascolti? Parla lui per te.
Se ti trovi in questa condizione, o non ti ci trovi ancora ma pensi che le circostanze “ambientali” inevitabilmente ti ci porteranno perché pur con tutto te stesso, proprio non sopporti il contesto, è meglio correre ai ripari prima possibile.
Strada n° 1: parlare con il capo del capo difficile e mellifluo. Attenzione!
Premetto che un capo difficile e mellifluo normalmente, se è percepito come tale non solo da te, ma da più persone, ha “nevrosi” di cui non è cosciente (in realtà in media tutti ne abbiamo, solo che alcune nuocciono più di altre nei contesti lavorativi).
Tu non sei tenuto nè a capirle, nè a subirle, altrimenti lavoreresti in un consultorio ASL.
Sta di fatto che se quella persona sta lì dove è indisturbata da anni, pur rappresentando una fonte di malessere non solo per te ma per tutti, è perché è funzionale a qualcun altro, che è possibile, ipotizzo, incarni lo stesso modello relazionale vittima – carnefice, dove questa volta è proprio il tuo capo difficile tiranno e mellifluo a subire a sua volta la “tirannia” del suo capo.
Che allegriaaaa!!! avrebbe detto Mike Bongiorno.
Nessun capo di un capo realmente centrato e con una psiche equilibrata si circonderebbe di un capo difficile e mellifluo se non perché quel tipo di capo è esattamente quello che lui stesso pretende e cerca: sottomissione..
Persone che hanno un sana considerazione di sè e una “centratura”, non hanno alcuna necessità di innescare dinamiche di questo tipo per gestire i loro rapporti lavorativi.
Qui potrei aprire un capitolo infinito sulla trattazione dei modelli relazionali sadico/masochisti, o carnefice/vittima, ma mi riservo di farlo in futuro come ti ho anticipato nel mio articolo “Manager o Leader, quale tipo sei’” (puoi sbirciare lì per conoscere le caratterizzazioni di comportamenti che approfondirò anche in seguito).
Sappi però che esiste anche il cosiddetto masochismo sociale.
Il problema nasce quando un “masochista sociale” pretende che tutti si adeguino al suo modello (distorto in negativo) di vedere la vita lavorativa: “mi sacrifico io, si devono sacrificare tutti”.
Alla luce di quanto sopra, va da se che ricorrere ai ripari andando a cercare conforto nel capo del capo difficile e mellifluo equivale al suicidio lavorativo.
Potrebbe invece essere che il capo del capo difficile e mellifluo è li da poco, non ha ancora conoscenza del capo mellifluo e deve ancora prendere le misure.
Allora hai speranza, da un lato che se ne accorga lui per primo e prenda provvedimenti, dall’altro che quanto meno potresti avere un alleato a cui rivolgerti per chiedere spostamenti o cambi di attività o fare presente il tuo malcontento.
La strada ultima, se parlare col capo del capo difficile e mellifluo non da risultati o non è possibile, è andare a parlare con la persona a ciò preposta della funzione HR.
In fin dei conti, chiedere di cambiare lavoro dopo un po’ di tempo è sano e funzionale alla tua crescita lavorativa, non necessariamente devi porla come una questione di “non sopportazione” del tuo capo difficile.
Ed è bene che tu lo faccia dopo aver fatto la stessa richiesta al tuo capo difficile e mellifluo e al relativo superiore: e non perché loro ti daranno ascolto se sono caratterizzati come ti ho già descritto, ma solo perché non possano dirti un giorno “ma a noi non l’avevi detto” e perché elevarsi significa fare la differenza.
Bypassarli sarebbe attuare lo stesso comportamento che loro applicano a te. Ma tu, sei meglio di loro.
Strada n° 2 – cambiare lavoro internamente/cercarlo altrove
Al di là del percorrere queste strade, quello che mi preme farti presente ora è il danno che stai facendo a te stesso, subendo questa situazione che vivi come intensamente negativa, senza cercare rimedi, quali chiedere un cambio di lavoro interno,o fosse anche cercare lavoro presso altre aziende se non lo hai già tentato.
Se non lo fai è interessante capire cosa ti frena o cosa ti frena dal cercare altre strade in generale.
Visto che questa convivenza forzata con il capo difficile porterà irrimediabilmente al peggioramento della tua vita e imbruttimento della tua persona, quello su cui ti invito a riflettere è: che cosa ti impedisce di “ribellarti” o di fare qualcosa di diverso da quello che hai fatto sino ad ora, compreso, appunto, cercare lavoro altrove internamente o esternamente, qualora la situazione sia per te insostenibile?
Cosa ti spaventa? Cosa ti frena?
Le possibili ripercussioni?
Guardati attorno: a chi ha osato ribellarsi al capo difficile, se hai degli esempi intorno, che cosa è successo?
Ha risultati così tanto peggiori di chi come te invece “sopporta” il capo difficile e mellifluo? O magari uguali o simili?
Pensaci bene, anche nel lungo termine, se vuoi restare dove sei, cosa è che premia nella tua famiglia professionale in questo momento e con i capi che ci sono?
E quello che tu vedi essere un comportamento premiato per crescere professionalmente, saresti in grado di sopportarlo o attuarlo?
Risponde alle tue aspettative di carriera e monetarie? Sarebbe in sintonia con il tuo ideale di vita e con i tuoi valori? Se no, cosa hai da perdere a tentare altre strade?
Conosci qualcuno che da dove sei tu se ne è andato? Come ha fatto? Sta meglio, sta peggio, lo conosci, gli hai mai chiesto un confronto per capire come ha ottenuto ciò che voleva?
Usare e “modellare” il “come” delle esperienze altrui è sempre un ottimo modo per uscire fuori da situazioni difficili.
Ti spingo al limite: immagina la tua situazione attuale di scontentezza protratta fino alla pensione!
Pensi di poterla sopportare? Se la riposta è no, ti faccio presente che più tempo resti dove sei, più aumenti le probabilità che accada esattamente questo, e che tu possa passare da un ufficio all’altro con poca capacità di decidere delle tue sorti.
E’ quello che vuoi? Benissimo.
Non è quello che vuoi? Fai qualcosa. Ora. Non fra 1,2,3 o 4 anni. Ora. Comincia a pensarci ora e a farlo ora.
Soprattutto nella nostra cultura è diffuso il concetto della sopportazione e del sacrificio, per cui l’idea di sopportare e sacrificarsi diventa quasi un “must” e “fa molto figo”.
Spesso è una cultura diffusa nelle aziende italiane considerare “dei grandi” quelli che lavorano ad oltranza.
Sappiamo bene che nei paesi del Nord Europa non è così, in media. La domanda che sarebbe opportuno porsi invece è: se c’è tutta questa necessità di lavorare oltre ogni limite, non è che serve un rinforzo di organico?
O magari si tratta di disorganizzazione allo stato pure e basta? E se così fosse, ne devi fare le spese per forza tu? Dove sta scritto? Tirartene fuori quali conseguenze potrebbe avere? E’ temporanea o strutturale questa situazione?
Inoltre, una cosa è sacrificarsi e sforzarsi in funzione di un obiettivo che si concretizza o ha alte probabilità di concretizzarsi, altra cosa è sacrificarsi per la patria, senza infamia, senza lode, per la gloria di nessuno e pure digerendo tonnellate di bocconi amari subendo un capo difficile…
Ecco..nel nostro paese questa seconda accezione di sacrificio e sforzo è diventata la normalità, per questo, credo, siamo il paese con la tassazione più alta d’Europa…
Diciamo che sarebbe bene tu ti prefissassi una data limite entro la quale vedere realizzati i tuoi obiettivi di crescita professionale, per cambiare rotta al non verificarsi di certe condizioni. Non lo hai ancora fatto? Comincia.
Ogni giorno deve avere la sua ricompensa.
Se stai pensando che è una affermazione banale, ti domando: ogni giorno quante ricompense ti regali?
Il fatto di sentirci immortali o di pensare che le cose brutte del mondo possano accadere solo agli altri, potrebbero indurti a passare giorni senza dedicarti a quella passione a cui tieni tanto (se ne hai una, se non la hai ti invito a farti qualche domanda), senza ridere con qualcuno, senza fare quella telefonata/visita a chi vorresti, senza oziare, o più in generale, senza il piacere di fare/non fare qualcosa che ti regali quello che tu consideri godimento puro.
Più giorni passi senza darti una ricompensa, più rischi di assomigliare ad una pianta che non è annaffiata.
Sai vero che fine fanno le piante senza ricevere acqua? Ora non venirmi a dire “si ma io sono una pianta grassa e le piante grasse possono stare anche senza acqua” perché parli ad una che è riuscita a far morire pure quelle, sebbene ne richiedessero molta meno delle altre …
Il darti una ricompensa quotidiana è un buon modo per conferire qualità alla tua vita in attesa di capire cosa sia meglio per te, nel medio e lungo periodo.
Una volta capito poi, hai solo da passare all’azione. Inoltre aumenta comunque anche la tua resa in ufficio. Non lo dico io. Le persone serene, lavorano meglio.
Richard Branson, fondatore della Virgin è balzato alle cronache per aver abolito gli orari di lavoro.
Lo fa per il bene dei suoi dipendenti? No, lo fa per il suo tornaconto, perché le persone serene lavorano di più e meglio e ha capito che il suo tornaconto dipende strettamente da quanto a loro volta, i suoi dipendenti, trovino soddisfazione nella loro vita in senso più ampio.
In Italia siamo anni luce da un modello simile, ma, per dovere di cronaca, lo riporto perché è un elemento informativo a sostegno di quanto dico.
Ricapitolo: ti ho fatto ragionare sulle conseguenze di lungo termine qualora tu, adesso, viva una situazione lavorativa che consideri insopportabile o insoddisfacente a contatto con un capo difficile.
Abbiamo vagliato diverse possibilità di scelta su come agire, ti ho parlato di come ogni giorno debba avere la sua ricompensa .
Adesso cosa fai, accampi scuse o ti muovi?
Esiste sempre una possibilità di scegliere. Ma le scelte siamo noi a crearle.
Non esiste meta che non sia stata raggiunta da chi aveva una motivazione forte e un obiettivo ben preciso in mente.
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Federica Crudeli

COLLEGHI DIFFICILI: I “FALSI”. COSA FARE?
Ciao e Bentornato a Lavorare col sorriso!
Dopo la pausa estiva che sono sicura ti abbia “rigenerato” riparto subito a “bomba” parlando di come gestire i rapporti con una particolare tipologia di colleghi difficili: i melliflui o adulatori, voltafaccia, voltagabbana, o lingua felpata che dir si voglia. Chi sono? Come puoi gestirli?
[Tweet ““ Meglio i corvi che gli adulatori: gli uni divorano i cadaveri, gli altri i vivi” – cit. Antistene“]Molti lettori del blog, al rientro dalle ferie, hanno ripreso la vita d’ufficio quotidiana avvertendo subito un potente contrasto fra la serenità legata al godere della compagnia di persone che si sono scelti durante le ferie e l’obbligo di rapportarsi, una volta rientrati in ufficio, con alcune tipologie di colleghi difficili.
Un po’ come passare dal fare un bagno nell’acqua mite del Mar Mediterraneo all’acqua ghiacciata dell’oceano Pacifico.
Beh… intanto chi sono i capi/colleghi uomini/donne difficili e falsi/melliflui?
Da dizionario il mellifluo è colui che “esprime gentilezza affettata, manierata, falsamente dolce e cortese”.
Volendone descrivere le peculiarità con una buona dose immaginaria di ironia caricaturale e a tratti grottesca, ecco una possibile caratterizzazione di questa tipologia di colleghi difficili:
- sorridono sempre quando ti incontrano e sono sempre gentili a parole, in media, anche dopo che ti hanno fatto una carognata. Il loro sorriso è spontaneo come potrebbe esserlo il sorriso di un mezzo busto della TV che in diretta tenta di fare l’indifferente mentre qualcuno gli pesta i piedi con un martello;
- se sbagliano (magari a danno tuo o altrui), non ammettono mai di aver fatto un errore, quanto piuttosto fanno completamente finta di nulla e bypassano in pieno l’argomento durante le conversazioni. Se possono non solo non ammettono l’errore ma dissimulano argomentando l’accaduto in modo tale che quasi quasi sia colpa altrui;
- generalmente affrontano le dissidie o i disaccordi fisiologici nei rapporti lavorativi in modo scivoloso come le saponette: è difficile metterli alle strette ad affrontare una questione “di petto” e con franchezza. Altrettanto difficile è risolverla girandoci a lungo ed intorno: tentano sempre di ricondurre i confronti a miti consigli e difficilmente manifestano apertamente la loro intera posizione/pensiero. Piuttosto di fronte a te fingono di capire, accettare, confrontarsi, mettersi in discussione poi tornano a fare esattamente come prima. Magari attraverso comportamenti reiterati ti boicottano in modo sottile, apparentemente distratto e casuale. In questo modo tu non ti senti mai nella posizione di poter dire che hai subito “uno sgarbo”;
- si sentono anche, generalmente, intellettualmente superiori agli altri e quindi dall’alto della loro posizione scrutano i colleghi come se fossero esseri inferiori, trattandoli con aria di sufficienza. Magari fanno la stessa attività da molti anni e pertanto si sentono i detentori della verità assoluta su una materia. Magari mancano di umiltà nel non rendersi conto di quanto poco padroneggino molte altre competenze;[/li-row][li-row]sentendosi superiori, in genere hanno quindi la preferenza a relazionarsi con colleghi di livello gerarchicamente superiore. Se una cosa la dici tu ti snobbano, se la stessa cosa la dice “un capo” allora si sciolgono in un brodo di giuggiole;
- hanno un senso di riverenza e rispetto per le posizioni gerarchiche superiori che è quasi demodè e rasenta la sudditanza. Questa riverenza talvolta assume le vesti della vera e propria paura paralizzante di chi non muove un foglio se non ha la certezza che quello che sta per fare è gradito al suo re;
- anche quando esistono tutti i presupposti per relazionarsi con te, in base alle competenze lavorative, il voltafaccia mellifluo ti “scavalca” o bypassa e si rivolge ad altri. In qualche modo tenta di destituire il tuo ruolo, che sia di responsabilità o meno;
- se in media ti evita, prevarica e non ti considera, tipicamente invece ti cerca quando deve scaricare per questioni urgenti delle colpe su qualcuno o attribuire qualche responsabilità spinosa e sconveniente a danno delle tue stesse competenze che in altre circostanze, non ti vuole riconoscere;
- di solito ha un rapporto morboso anche con le informazioni, che custodisce gelosamente come fossero il 4° segreto di Fatima, e ne centellina la divulgazione, in modo frammentato e a persone diverse, di modo che nessuno abbia mai un quadro completo della situazione che sarebbe opportuno conoscere per lavorare efficacemente;
- qualora poi fosse anche capo di qualche unità di business, maltratta con fare tiranno i suoi collaboratori mentre di fronte ad altri si mostra come la persona più affabile della terra
Terminata la descrizione, hai colleghi simili?
Prima di capire come comportarsi con colleghi difficili melliflui/voltafaccia che attuano questi comportamenti, è opportuno riflettere qualche minuto sull’effetto che ti fanno. Perchè, ti starai domandando?
Perché ne sarai ripagato in tutte le future occasioni con piccolo investimento delle tue energie mentali.
Perché ti svelo una banalità: nessun essere umano, me compresa, possiamo nulla, ma proprio nulla, per modificare o controllare i comportamenti altrui.
Tu puoi solo migliorare la consapevolezza e gestione di te stesso in relazione a qualsivoglia variabile esterna.
Sebbene siamo tutti quanti abituati a vivere in un mondo che educa in modo sottile al controllo esterno, di fatto, tentare di controllare tutto quanto è “fuori” dalla nostra persona, cercando di piegare “il mondo” al nostro volere, conduce, in ultima analisi, alla schiavitù: fisica, emotiva, razionale.
E questo ragionamento vale con chiunque, che si tratti di colleghi difficili, capi difficili, mogli, mariti, amici e così via.
Vuoi sentirti libero? Comincia ad esserlo tu per primo liberandoti dagli effetti negativi che tali colleghi difficili ti innescano e che ti aiuto ad osservare, senza giudicarti.
- Quale sfumatura emotiva si genera in te nel lavorare con questi colleghi difficili? Ci hai mai fatto caso?
Ti suscitano rabbia, collera, ira, aggressività verbale, voglia di prendere a pugni le scrivanie, paura della loro reazione, paura di non sentirti considerato/riconosciuto, nervoso, ansia, istinto di rivalsa, tristezza o cos’altro?
- Dove avverti queste sensazioni? In quale parte del corpo? Nello stomaco, nella parte alta del petto, nel respiro che resta sospeso, o trattenuto per non sbottare mai, o affannato solo per fare degli esempi?
- Quali pensieri ti nascono in testa quando devi gestire colleghi difficili voltafaccia?
Nello specifico quali pensieri fai rispetto a te stesso, alla tua autostima e al senso del valore che hai di te stesso? Ti senti invisibile, sminuito, impotente, preso in giro o cos’altro?
- Quali pensieri fai rispetto a questo modo mellifluo di comportarsi? Come lo vedi, valuti, rispetto ai tuoi valori personali, alle modalità di comportamento in cui credi e che reputi di valore per te?
- Prenditi qualche minuto e riflettici a tutto tondo: cosa ti accade dentro, in testa, nel corpo, a livello emotivo?
Fatto questo, e regalato a te stesso il tempo di ragionare e sentire che ti consente di aumentare la tua consapevolezza, passiamo al passo successivo.
Come comportarsi con i colleghi difficili e “voltafaccia”?
Dipende.
Da cosa? Dagli obiettivi che hai in relazione a quello che solitamente devi fare, ai risultati che è tua competenza assicurare e alla durata del rapporto dettato dalle circostanze.
Il collega mellifluo è di passaggio, è un consulente, è una persona che pensi non rivedrai mai più? Puoi permetterti di fare buon viso a cattivo gioco così come di manifestargli apertamente il “dissenso” (connotato in qualsivoglia modo) che ti sgorga dentro sempre nel rispetto e nei limiti dell’educazione (anche se, fuori da ipocrisie, qualche pensiero impuro su regolazione di conti alla Far West è normale… non preoccuparti).
Se invece il collega difficile e mellifluo è e resterà a lungo una persona con cui dovrai rapportarti, ti conviene abbandonare l’investimento delle tue energie negative e trasformarlo a tuo favore.
Come? La prima cosa che hai da tenere a mente e che ha senso sia il motivo principale che guidi le tue azioni è solo uno:il tuo obiettivo.
Cosa vuoi ottenere nel lavorare con il collega difficile? Diventarci amico, entrare nelle sue grazie a tutti i costi?
Oppure vuoi semplicemente collaborare quel tanto che serve per portare avanti delle attività in parte legate a lui, e quindi rapportarti con lui quel tanto che basta ed è necessario per svolgere al meglio la tua attività?
Credo che già acquisire consapevolezza di questa distinzione contribuisca a diminuire l’investimento di energie che è il caso di spendere.
Mettiamo tu abbia concluso che puoi benissimo rapportarti a lui solo quanto basta per le circostanze che lo richiedono, cosa puoi fare tutte le volte che ti scavalcherà, tenterà di affermare la sua superiorità a parole, disconoscerà i suoi errori a tuo discapito, ti dirà le cose a metà,negherà l’evidenza etc etc…?
Adesso che hai consapevolezza di cosa ti innesca questo tuo modo di fare, hai libertà di scegliere, se continuare a farti il sangue amaro , o indossare un abito diverso.
Non ci credi?
Così come hai sempre scelto di “negativizzarti”, puoi anche scegliere che le prossime volte il suo modo di fare ti provocherà un sorriso di ironia, o una battuta ironica, o una totale indifferenza. O compassione.
Perché tu, che sei intelligente e hai capito che non puoi piegare i colleghi difficili la tuo volere, quelle stesse energie che prima spendevi a reagire d’istinto e in automatico in modo negativo, adesso le spenderai per fare dell’altro, lasciando il mellifluo falso ad affogare nel suo brodo primordiale.
E’ un po’ la stessa differenza che ci passa fra il vestirsi al buio e lo scegliere un abito con la luce accesa: se non hai consapevolezza dei tuoi “moti” interiori, è come se appena sveglio prendessi un vestito a caso nell’armadio e lo indossassi, al buio.
Quando invece sai cosa ti accade dentro, è come avere acceso la luce, aprire il guardaroba, vedere quanti abiti puoi indossare, e scegliere quello che ti fa sentire meglio, invece che prendere quello che d’istinto ti capita fra le mani. Si chiama anche proattività.
Lo puoi fare con gli abiti, puoi farlo anche con i tuoi stati d’animo. Più ti eserciti a farlo, meno tempo ci metterai a scegliere fra tanti abiti quale indossare.
Questo ha anche un altro vantaggio: i colleghi difficili e voltafaccia, solitamente, si nutrono (spesso incosciamente) della negatività che ti suscitano. Forse, sotto, sotto ci godono anche un po’.
Quali siano i motivi che inducono un collega o capo a comportarsi così, è un problema loro, non tuo.
Pertanto, che cambino o meno il loro modo di fare è frutto di una loro libera scelta, così come adesso può essere una tua libera scelta scegliere un atteggiamento che fa stare bene te, a prescindere da cosa faccia lui.
Tu adesso hai messo a fuoco e sentito cosa ti accade dentro. Quello che ti accade dentro, nel momento in cui lo sai riconoscere, lo sai anche gestire.
Se tu rompi gli schemi del loro giochino, non è escluso poi che in qualche modo cambino anche il loro modo di porsi.
Se il tuo modo di rapportarti non ti ha mai condotto ai risultati lavorativi che perseguivi, cambiali.
Cambiandoli magari scopri che questo collega, a sua volta, cambia. Se non cambia, resta comunque un problema suo.
Se i tuoi risultati li raggiungi comunque, e ti è riconosciuta una professionalità da chi è giusto che te la riconosca (esempio il tuo capo) cosa ti interessa di sprecare emozioni, stati d’animo e pensieri negativi per questo collega? IGNORALO! E lascia che quel mal di pancia istantaneo poi se ne vada senza stare a dargli troppo peso.
Se invece il mellifluo è il tuo capo, posto che magari non sopporti questo suo modo di fare, ti riconosce quanto pensi di meritarti? Se si, vale quanto sopra, vai avanti per la tua strada e scegli di guardare a lui in modo diverso.
Se no, allora hai un problema. Essendo il tuo capo e quindi colui che magari decide della tua crescita professionale ed economica, hai da trovare un modo per entrarci in relazione e non per diventarci amico, (che te ne frega? Anche se capisco bene che in quanto animali sociali per senso di appartenenza ci piacerebbe piacere a tutti e stare bene con tutti), ma per il tuo interesse.
Come? Studialo bene. Posto che se lo hai riconosciuto nei comportamenti descritti significa che lo hai osservato, adesso osservalo senza giudizio non con l’occhio di chi ha di fronte a se un nemico da combattere che attua comportamenti poco digeribili, ma con l’occhio di chi osserva un potenziale alleato.
E’ umano come te. Cosa gradisce? Cosa non gradisce?
Quali modi di porre le questioni apprezza e quali no?
Come vuole sentirsi dire le cose? Da chi? Quando?
Quali argomenti extra lavorativi potete avere in comune? Potrebbero essere un terreno neutro per appianare le ostilità, e dalle quali costruire un passo alla volta un altro genere di rapporto lavorativo.
Attenzione, non ti sto dicendo di snaturarti. No.
Ti sto dicendo che tu puoi consapevolmente e restando te stesso identificare le modalità di entrare in relazione più vicine a lui, anche se magari più distanti dalle tue o da quelle che normalmente ti vengono più naturali e spontanee.
Qui non si tratta di snaturarti, ma di sviluppare quella flessibilità comportamentale che ti consente di parlare la sua lingua in modo che tu possa guadagnare a piccoli passi la sua fiducia e farti riconoscere quello che pensi di meritare.
Costa impegno? Si, ma se è il tuo capo, a differenza di un qualsiasi collega, ha più potere di influire sulla tua vita lavorativa.
Pertanto a maggior ragione il tuo impegno è giustificato.
Inoltre lui attua i suoi comportamenti a te poco graditi per le sue ragioni (per quanto possano risultarti incomprensibili), è mosso da pensieri suoi e da convinzioni sue, non tue, esattamente come tu sei mosso ad agire per interessi, motivi e convinzioni tue.
Non hai voglia di identificare modalità diverse da quelle che hai usato finora per entrarci in relazione?
Anche questa è una tua libera scelta, l’importante è che tu sia consapevole delle conseguenze a cui vai incontro e sia disposto a farne le spese, esattamente come sei disposto a non impiegare energie per rendere più flessibile i tuoi comportamenti.
Ti faccio presente che questo stesso ragionamento fondato sull’osservazione senza giudizio di comportamenti che non tolleri, l’osservazione senza auto-giudizio di cosa ti accade dentro, e l’identificazione per libera scelta consapevole di come vuoi gestirti in relazione ai tuoi obiettivi, è riproducibile su vasta scala con chiunque.
Pensi ancora che i benefici di un investimento di energie e tempo in tal senso siano cosa da poco?
Siamo tutti in media affascinati dal “successo” altrui e vediamo spesso solo la punta dell’iceberg.
Pensi che le persone che ottengono “cose” nella vita le ottengano “a gratis”?
O piuttosto, accecati dalla visione superficiale delle cose facciamo tutti poca attenzione all’impegno “sottostante” al raggiungimento di obiettivi desiderati?
Hai intenzione di subire ancora i colleghi difficili e voltafaccia?
Qualora difficile e voltafaccia non sia un collega ma il capo, ti rimando al mio articolo “Capo difficile: il voltafaccia. 2 strade possibili”.
Ti ho regalato un sorriso di libertà con questo l’articolo?
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Federica Crudeli

INFORMAZIONI NASCOSTE. A VOLTE TI SEMBRA DI LAVORARE PER I SERVIZI SEGRETI?
Ciao e Benvenuto a Lavorare col Sorriso!
Oggi ti parlo di come difendersi da colleghi difficili che adottano un atteggiamento lavorativo poco collaborativo quale l’occultamento/distorsione/divulgazione tardiva dell’informazione come modo per: avvantaggiarsi nelle negoziazioni, acquisire potere/mantenerlo, difendere i propri interessi, a discapito, voluto, degli altri colleghi.
Nelle aziende possono esistere delle asimmetrie informative verticali (dai capi verso i collaboratori) ed orizzontali/interfunzionali ossia fra funzioni organizzative diverse.
Il fatto che possano esistere, di per se non ha nulla di strano, nel senso che non necessariamente tutti devono sapere tutto su ciascun argomento.
Inoltre è fisiologico che all’interno delle organizzazioni, nell’ambito della contrapposizione di interessi tipica di ogni funzione aziendale, esistano delle asimmetrie informative: fa parte del gioco, ed è anche un elemento attorno al quale ruotano le negoziazioni.
La “gelosia” in tema di informazioni esiste invece quando una persona, in qualità di manager, collaboratore o collega, volutamente e sistematicamente (cioè in tutte le circostanze) tiene per se informazioni o le rende note troppo tardi, quando invece, se note, avrebbero orientato le scelte, decisioni, comportamenti di qualche altro collega, in modo differente, o, semplicemente, gli avrebbero evitato una pessima figura in particolari circostanze.
Questa tipologia di colleghi difficili ti è sconosciuta?
Ora, personalmente, e usando un pò di ironia, sono a favore dell’evoluzione della razza umana, non di quella rettiliana, che è rimasta ferma all’utilizzo del primo stadio primitivo di sviluppo del cervello, cioè quello rettile, e come tale governata solo da meccanismi di attacco/fuga, e caratterizzata dal solo uso di pulsioni e automatismi appresi.
In realtà sono molte le tipologie di colleghi difficili che appartengono alla razza rettiliana a causa dei comportamenti che adottano, ma oggi mi soffermo su questa. A titolo informativo, dico che il più recente stadio di sviluppo del cervello è il “neo-pallio”associabile allo sviluppo dei lobi frontali, alla reazioni volontarie, a comportamenti “consci”.
Che un po’ di soldi, un bel vestito, una bella borsa, studi sofisticati e qualche titolo facciano di un umano, uomo o una donna che sia, un soggetto sviluppato ed evoluto, è tutto da vedere. Anzi. Le nostre cronache sono la testimonianza quotidiana dell’esatto contrario. …
Quindi qualora tu faccia parte della categoria di colleghi difficili che è solito usare mezzi generalmente percepiti come sgradevoli, quali quello di occultare/distorcere/fornire tardi l’informazione volutamente, per essere “vincente” credo che potresti trovare interessante leggere l’articolo per prendere coscienza degli effetti del tuo comportamento sugli altri e in ultima analisi, anche sull’organizzazione del lavoro (che spesso ne risulta deteriorata), e magari avere un punto di vista esterno diverso.
Qualora invece fossi uno di coloro che è costretto a subire questo comportamento e le sue conseguenze da parte di colleghi difficili, continua a leggere, perché potresti guadagnare una prospettiva diversa da cui guardare le cose e difendere il tuo benessere.
Quali potrebbero essere i vantaggi ottenuti dai colleghi difficili che occultano le informazioni a danno di altri colleghi, guadagnandosi probabilmente a lungo andare, la loro malevolenza, e generando inefficienze lavorative?
primo fra tutti forse aprirsi le strade per fare carriera, in un contesto dove esiste l’esempio fattivo e concreto che questo modo di fare paghi;
- difendersi dalla paura di ritorsioni del proprio capo qualora fosse un soggetto che crea un clima di diffuso “terrore” per qualsiasi cosa sfugga al suo vaglio;
- conservare il proprio potere (o percepito come tale) con la convinzione che nascondere certe informazioni o un certo sapere costituisca un modo per creare/mantenere distanze rispetto ad altri nell’organizzazione;
- sentirsi importante e indispensabile agli occhi di chi, necessariamente, per poter lavorare, dipende da un certo tipo di informazione/sapere/conoscenza;
- godere dell’avere molti più margini di manovra di altri nel gestire alcune attività, dati dalla posizione di vantaggio di cui beneficia chi conosce informazioni utili ad altri ma non divulgate. Tanto cosa importa se un collega magari non raggiunge un obiettivo, o fa le cose sbagliate, o duplicate, o in ritardo?
- sentirsi più bravi, godere della prepotenza agita sugli altri;[/li-row][li-row]proteggere il proprio senso di sicurezza o la propria “posizione”.
Ti riconosci in una di queste situazioni? Rifletti su quali sono i motivi che ti spingono a tenere questo comportamento. (Può aiutarti anche l’articolo “Manager Leader: quale tipo sei?” anche per conoscere il tema dei tuoi tratti caratteriali distintivi e degli automatismi appresi).
Insomma, anche per ridere un po’, chi si atteggia in questo modo “strutturalmente” quasi quasi sembra un membro infiltrato dei servizi segreti.
In effetti vivere la quotidianità come se si fosse l’agente segreto di un film di spionaggio internazionale rende le giornate molto più movimentate e colorite.
Quali sono le possibili conseguenze negative di questo atteggiamento, nel lungo termine (e spesso anche nel brevissimo termine?)
Rallentamento se non duplicazione di attività e, conseguentemente, inefficienze gestionali, negoziazioni il cui esito è un compromesso piuttosto che una soluzione win-win, generazione di malcontento, diffusione di un pessimo clima lavorativo e demotivazione.
Questa sindrome “patologica” da occultamento di informazione, non ti sembra un filo datata?
Poi ci lamentiamo se viviamo in un mondo che fa pena, quando già nel nostro piccolo non siamo capaci di elevarci un pochino al di sopra della media dei comportamenti puramente “rettiliani” per il progresso della civiltà!
E cosa puoi fare tu, se sei vittima di colleghi difficili che vivono come fossero infiltrati dei servizi speciali, per preservare le tue energie e il tuo benessere mentale, emotivo e, a volte, anche fisico?
Faccio presente che più è frequente e lunga l’esposizione forzata a questi colleghi difficili, più è probabile che il fisico somatizzi in qualche modo tutto quello che non esprime a parole…
- riconosci a te stesso il fastidio che senti, di rabbia, collera, paura, tristezza o qualsivoglia altra sfumatura emotiva. Uno degli atteggiamenti più auto-punitivi che esista difatti è quello di reprimere il proprio stato d’animo giudicandolo “da stupidi/perdenti/sconfitti” magari attaccandosi addosso un sorriso di circostanza a denti stretti;
- esprimi il fastidio all’interessato con garbo per cercare un dialogo finalizzato ad instaurare un rapporto di maggiore apertura. Difatti le persone ti trattano così come tu le abitui a trattarti. Se taci sempre il tuo fastidio, certamente chi è solito comportarsi così, lo rifarà. Hai paura che esprimendoti fai la figura del “deficiente?” Se si, ti domando per quale motivo dovrebbe interessarti tanto l’opinione di un collega che agisce secondo una dubbia capacità collaborativa;
- se l’aver espresso il fastidio, magari anche più volte, non sortisce alcun effetto – e per colleghi difficili con personalità particolarmente ostiche e resistenti è probabile – considera l’idea che non è un problema tuo ma di chi lo pone in essere.
- Se un soggetto decide di essere scientemente non collaborativo o di voler proseguire così per il resto dei suoi giorni, tu non potrai mai fare nulla per difenderti dalle conseguenze di questo atteggiamento, semplicemente perché non sei nella sua testa. E mai potrai prevedere quale sarà la prossima volta che mancherà di dirti delle cose che ti riguardano, o se lo farà quando sarà troppo tardi, o quale altra diavoleria escogiterà pur di fare il suo interesse. Tutte le energie mentali che spendi nel tentativo di contrastare, prevedere la prossima “scorrettezza” sono inutilmente buttate alle ortiche. Sapere questo non ti mette in una posizione di debolezza ma di forza, semplicemente perché a pugnalata ricevuta, sarai carico di energia e pronto a scegliere come rispondere (e dico rispondere – non reagire) , senza esserti sfinito prima e solo nella tua testa nel tentativo di pensare tutte le possibili difese ad un comportamento imprevedibile;
- pensa se sei il solo a percepire così questo collega difficile o se sei in allegra compagnia. Se così fosse, a maggior ragione, di cosa ti preoccupi? Di fondo, quando un collega lavora per i servizi segreti e sono in molti ad accorgersene, alla lunga, si screditerà da solo;
- il fatto che tu disponga dell’intelligenza per riconoscere questo comportamento come inopportuno, di per se, non è già una vittoria? E se disponi di questa intelligenza, perchè rivolgertela contro con malumori, rabbia, nervoso, etc? Piuttosto usala per prendere il giusto distacco emotivo dalle situazioni che probabilmente rivivrai a contatto col collega difficile;
- considera l’ipotesi che il giochetto di avvantaggiarsi dei gap informativi a spese di altri poi è un bel gioco che dura poco: le persone meno rettiliane inizieranno, in base ad altri rapporti di reciproca fiducia e trasparenza esistenti, ad intessere una rete collaborativa all’interno della quale scambiare le informazioni mancanti o verificare la veridicità di quelle ricevute dall’agente segreto;
- il collega difficile, col tempo, è destinato ad essere credibile come i soldi del monopoli. Nessuno gli crederà più. Anche se continuerà, molto probabilmente, ad essere convinto di essere un figo pazzesco e furbissmo. In realtà è miope, vede poco lontano e continua pure a muoversi senza occhiali da vista;
- qualora il collega difficile abbia fatto carriera, prima di invidiarlo, domandatevi: a che prezzo? E’ una scelta individuale. Si può scegliere di morire blasonati e isolati, oppure con meno medaglie ma ben voluti stimati e apprezzati, quanto meno come esseri umani.
Fare dell’insabbiamento delle informazioni sistematicamente un “vantaggio” è tipico, spesso, si di colleghi difficili, e anche profondamente insicuri, o altamente manipolatori, competitivi nel senso più distruttivo del termine, e poco collaborativi.
Se è vero che nei contesti negoziali fa parte del gioco delle parti, entro certi limiti, scoprire le carte un poco alla volta, oltre certi limiti è una scelta perdente per tutti che obbliga a trovare compromessi piuttosto che soluzioni win-win come vorrebbe la letteratura economica più evoluta.
In ultima analisi, le conseguenze di questo atteggiamento si ripercuotono in senso negativo sulla produttività lavorativa generale, sia per i costi “emotivi” legata alla demotivazione di chi è a contatto con queste persone, sia per la necessità di fare male, tardi o più volte, le stesse cose per porre rimedio alla finta furbizia altrui.
Fammi conoscere le tue riflessioni e la tua esperienza sul tema lasciandomi un commento nel box in fondo alla pagina.
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A presto!
Federica Crudeli
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RIPETI SEMPRE GLI STESSI ERRORI? COME TRASFORMARLI IN SUCCESSO
Ciao e Benvenuto a Lavorare col Sorriso!
Ripeti sempre gli stessi errori nella gestione dei rapporti lavorativi e vorresti trasformarli in successo uscendo da schemi di comportamento ripetitivi, che vivi come poco utili e fastidiosi per te nella vita lavorativa, quasi fossi una creatura inerme intrappolata nella morsa di un serpente velenoso? Leggimi!
[Tweet “”Fare errori è naturale, andarsene senza averli compresi vanifica il senso di una vita” – cit. S.Tamaro “]In quali casi ripeti gli stessi errori?
Quando, a titolo di esempio (non esaustivo), in modo sistematico e automatico:
- attacchi un collega con collera di fronte ad una critica, salvo pentirti della tua istintività;
- subisci qualche angheria sempre con lo stesso senso di impotenza covando rabbia repressa per i successivi 6 mesi;
- non sei capace di affermare con assertività una tua convinzione;
- ti dai per vinto in partenza di fronte ad una situazione che vivi come troppo complessa da gestire malgrado una parte di te vorrebbe “buttarsi”;
- fatichi a far rispettare il tuo ruolo in azienda quando hai rapporti troppo amichevoli con alcuni colleghi;
- quando in una negoziazione o conflitto tendi al ritiro o a mediare eccessivamente e rinunci a difendere i tuoi interessi purchè tutte le facce dei colleghi siano sorridenti, tranne la tua.
Inutile dire che questi errori si riferiscono a situazioni che presuppongono uno scambio fra te e altre persone, e quindi il tema, oltre ad avere a che fare con la consapevolezza che hai di te stesso, si inquadra nell’ambito dei rapporti tra colleghi.
Ci tengo poi a fare una premessa: TU NON SEI I TUOI ERRORI!
Oppure fai parte di quelle persone che si identificano con i propri errori e li personalizzano al punto da avvertire un senso pervasivo di fallimento ogni volta che ne commettono uno?
Scrivo questo articolo perché di recente ho commesso un errore le cui conseguenze sulla mia pelle sono state paragonabili a un bagno ghiacciato nel Mar Glaciale Artico in pieno inverno (si, dai, esagero volutamente anche per farti sorridere un po’).
Il fatto “grave” è che ho commesso ancora una volta lo stesso errore in una determinata circostanza, simile a tutte quelle precedenti, in cui il risultato finale se non era stato il bagno ghiacciato nel Mar Glaciale Artico era pur sempre stato fastidioso come la sabbia negli occhi.
Accade di affezionarsi così tanto agli stessi errori che Dante, se fosse vivo, probabilmente indirebbe un concorso a premi per la diabolicità da coazione a ripetere.
Il fastidio che ho avvertito è stato talmente acuto però, che mi sono detta BASTA! E se BASTA l’ho detto io, lo può dire chiunque, a patto che lo voglia davvero!
Come ti ho spiegato nel mio articolo “Manager o Leader: quale tipo sei” ognuno di noi si manifesta con un carattere che talvolta ci porta ad attuare meccanismi inconsci che attivano il famoso pilota automatico o coazione a ripetere.
Si ripetono le circostanze esterne e si commettono gli stessi errori, si fanno le stesse cose, con annesso senso di frustrazione e di impotenza e talvolta con conseguenze progressivamente nefaste che vanno da piccole scottature, a urti, a ustioni di 3° grado.
Eppure ci sarebbe tanto una parte di noi che non vorrebbe fare così, ma lo fa comunque.
Come puoi uscire dai tuoi errori?
Parto dal presupposto che per te sia importante sradicare questa abitudine a commettere sempre gli stessi errori in una o più circostanze similari, e che quindi tu abbia voglia di apprendere un modo per cambiare strada.
Cosa fare in concreto con i tuoi errori:
intanto comincia con il pensare che cambiare è possibile. Hai imparato a guidare e fare tante altre cose nella vita. Puoi impararne altre. Certe abitudini così come le hai apprese, le puoi anche sostituire con altre più utili per te;
- ripensa a, e scrivi, tutte le situazioni in cui hai attivato il pilota automatico, quello che ti porta allo schianto o conseguenza indesiderata (perchè se ti porta positività e benessere non è il caso in esame);
- analizza cosa accomuna tutte queste situazioni per le circostanze esterne alla tua persona, ossia quale è “lo stimolo” esterno che ti fa “partire per la tangente”;
- analizza cosa accomuna tutte queste situazioni per gli aspetti interni alla tua persona, più in particolare quali sentimenti, emozioni, pensieri hanno causato l’inserimento del pilota automatico?
- ora che li hai messi a fuoco, quali benefici/vantaggi speravi di ottenere con il tuo comportamento? Quali bisogni cerchi di soddisfare con il tipo di comportamento che adotti in automatico?
- ricordi se in passato, anche da piccolo, usavi questo stesso schema o lo hai visto usare da qualcuno?
- quali reali benefici hai ottenuto rispetto alle circostanze esterne e rispetto a te stesso?
- quali benefici e quali obiettivi vorresti che agisse il te stesso futuro che vorresti libero da questo fastidioso pilota automatico?
- cosa devi/vuoi fare per ottenere questo nuovo obiettivo/comportamento? Immaginalo nei minimi particolari a livello emotivo (emozioni che vorresti provare, pensieri che vorresti avere), e ripercorrilo nella testa e con il corpo passo dopo passo…magari anche camminando nello spazio. Solitamente, se è vero che il tuo vecchio schema era disfunzionale, il nuovo che hai identificato molto probabilmente assomiglierà al suo esatto contrario;
- identifica la prima circostanza utile in cui potresti dare prova a te stesso di essere capace di disinserire il pilota automatico, magari anche fuori dal contesto lavorativo;
- agisci nel nuovo modo con tutto te stesso, corpo, mente ed emozioni appena ti trovi nella circostanza che ti attiva il comportamento disfunzionale.
Ora, non ti sto dicendo che sia una cosa immediata cessare di commettere gli stessi errori, ma sicuramente prima comincerai a fare esercizio, prima diventerai il nuovo te stesso che ti prefiggi di essere e prima otterrai quello che vuoi dalla circostanza che normalmente ti causa problemi.
All’inizio ci sarà una parte di te talmente simbiotica con il tuo vecchio errore, che farà di tutto per impedirti di uscire dalla tua zona di comfort.
Ci sguazzi tanto bene lì dentro che ormai ti sei scavato la Fossa delle Marianne ed uscirne fuori assomiglia ad una impresa estrema.
Ti faccio presente che è così per tutti, tutti viviamo questa difficoltà, ma con uno sforzo di volontà cosciente, puoi educare prograssivamente i tuoi pensieri, comportamenti, azioni, abitudini, verso una meta nuova, perché di fondo, la Fossa delle Marianne esiste solo nella tua mente, non nella realtà.
È un po’ come fare gli addominali per la prima volta.
All’inizio senti dolore e fatica e ti sembra uno sforzo immane, ma piano piano, un piccolo passo alla volta, la nuova modalità comportamentale ti entrerà nei muscoli fino a quando la avrai interiorizzata: è questione di esercizio e abitudine, e tutte le abitudini possono essere cambiare con un uno sforzo di volontà cosciente.
Ti renderai conto che se anche per un po’ di tempo continuerai a commettere lo stesso errore, il tuo tempo di “ripresa” si farà sempre più breve, riuscirai a sfumare gradatamente quel comportamento e sentirai sempre meno lo sforzo dettato dal voler cambiare abitudine.
Se sono qui a scrivertelo è perché l’ho fatto e ha funzionato. E ha funzionato solo nel momento in cui ho smesso di procrastinare il momento in cui farlo sul serio. E ha funzionato con un atto di volontà vero e proprio di forzatura alla mia parte più “distruttiva”.
Fatto sta che, a differenza delle volte precedenti in cui avevo commesso lo stesso errore, questa volta in un lasso di tempo molto più breve, ho voltato pagina, orientato mente e cuore in qualcosa di utile che ho scelto consapevolmente, mi sono trattenuta dal fare le stesse cose che avrei fatto in quelle circostanze e ho ritrovato l’amore per me stessa.
Perché preservarsi dal commettere sempre gli stessi errori è, di fatto, un atto di amore verso se stessi.
Commettere sempre gli stessi errori, piccoli o grandi che siano, con conseguenze che tu valuti più o meno “gravi”, col tempo, demolisce l’autostima, ti rende incapace ai tuoi stessi occhi e rischia di portarti ad identificarti con essi fino al punto di dirti “sono un disastro”. Non è così.
Tutti commettiamo errori: l’importante è farne qualcosa di buono e impararne una lezione per trasformarli in un successo. Se questo non avviene, se dopo l’ennesimo errore ci passiamo sopra senza rifletterci come ti ho indicato sopra, è matematico, lo commetteremo di nuovo.
Nel condividere questa mia “caduta” ti sto anche dando un esempio di come un evento spiacevole e negativo, possa essere trasformato in qualcosa di utile per te che stai leggendo, invece che crogiolarmi sul “ho sbagliato anche questa volta”.
Il tempo è prezioso, ed essere proattivi rispetto alle circostanze invece che reattivi come ti ho spiegato sia nel mio articolo “I conflitti: li risolvi o cerchi colpevoli?” , così come il focalizzarsi sulla propria centratura come ti ho spiegato sia nel mio articolo “Un giorno lo farò: il tempo ti è nemico – Parte II”, e’ SALVIFICO!
Sei pronto a gridare il tuo BASTA?
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CONFLITTI SUL POSTO DI LAVORO: LI RISOLVI O CERCHI COLPEVOLI?
Ciao e Benvenuto a Lavorare col Sorriso!
Che tu sia uomo o donna, sei solito risolvere i conflitti sul posto di lavoro efficacemente usando l’intelligenza emotiva per migliorare la tua leadership oppure vai accusando in cerca di colpevoli, o della ragione costi quel che costi? In questo articolo ti parlo di questi due diversi atteggiamenti nell’affrontare i conflitti sul posto di lavoro e ti parlo delle softskills utili anche per la vita, dato che i conflitti o le divergenze fra colleghi, uomini, donne e umani in generale sono assai frequenti.
[Tweet ““I più grandi conflitti non sono tra due persone ma tra una persona e se stessa.” – cit. T.G. Brooks”]
La gestione dei conflitti sul posto di lavoro, può avere una finalità utile o non utile.
La finalità utile della gestione dei conflitti sul lavoro è quella di capire, esprimersi, farsi rispettare, trovare punti di accordo.
La finalità non utile della gestione dei conflitti è quella di manipolare (spesso inconsapevolmente), cercare colpevoli, accusare, difendersi, avere ragione.
Per quali motivi discuti, di solito? E quanto sei consapevole di come il tuo modo di gestire i conflitti sul posto di lavoro impatta sulla buona riuscita dei rapporti tra colleghi?
Ipotizziamo che Alice e Marco, che rappresentano due unità aziendali differenti nell’ambito di un gruppo di lavoro composto da più impiegati, abbiano da consegnare un lavoro finito per una certa scadenza.
Ognuno di loro è portatore di interessi differenti e ovviamente, ha preferenze diverse sulle modalità con cui è possibile “risolvere” un dato “compito”o “task” per usare gli inglesismi che fanno molto moda.
Nel giorno della scadenza stabilita e per rispettare obiettivi sfidanti Alice, senza dire nulla a Marco che era impegnato in altre attività, presenta all’intero gruppo di lavoro il “task” finito e costruito, in parte, ma non del tutto, con il contributo anche di Marco, che viene a conoscenza della versione finale del lavoro a cose fatte.
Marco si sente salire un pò di rabbia, quando vede scritto su una mail quello che avrebbe dovuto essere frutto anche del suo lavoro: non solo vede i fatti compiuti, ma condivide solo in parte la soluzione proposta, e in ogni caso ci sono degli aspetti dati per decisi che lo mettono in difficoltà rispetto alla sua unità di business.
Marco è arrabbiato e dentro di lui si agitano questi pensieri: sono incavolato nero, non mi ha considerato, mi ha “scavalcato”, ha deciso una cosa che non condivido e in più l’ha fatto in mia assenza senza avvisarmi.
Non posso neanche arrabbiarmi apertamente, perché si sa che in azienda i conflitti sul posto di lavoro “aperti” sono malvisti e come uno manifesta un po’ di dissenso viene tacciato di essere un polemico rompiballe.
Come potrebbe comportarsi Marco?
Esempio di gestione del conflitto sul posto di lavoro con modalità comunicative finalizzate a manipolare, cercare colpevoli, accusare, difendere, avere ragione.
M – (con tono risentito e veemenza verbale, verso Alice) Ho visto la mail… bella sorpresa… siete proprio scorretti! Non solo avete deciso la versione finale senza di me, ma in più l’avete comunicata a tutto il gruppo e vi siete venduti una cosa che ora mi mette in difficoltà con altri miei colleghi!
Il tono “risentito” è umano, ci può anche stare…ma quello che segue si chiama accusa, prima ancora di capire se abbia affettivamente dei fondamenti o meno.
A – Marco, sei sempre assente, questa è la logica conseguenza del tuo modo di fare!
Alice si sente attaccata e di istinto, invece che smussare i toni, contro-accusa il collega.
M – Ma che assente e assente, non nasconderti dietro a delle scuse perchè hai torto e sei stata scorretta! Non è la prima volta che succede. Mancava poco alla versione finale. Hai il brutto vizio di non parlare!
A – Se non ti fai trovare!
M – Ma se ero in trasferta ieri!
A – …e comunque cosa vorresti insinuare con quel “non è la prima volta che succede?” vogliamo parlare di quando due mesi fa ti sei “venduto” la scadenza senza condividerla?
Ora….potete capire che gestire i conflitti sul posto di lavoro con questo rimbalzo di attacchi e accuse reciproche potrebbe durare più o meno all’infinito.
Per ironizzare, in tre nanosecondi ogni collega ha già piazzato nella sua mente come arma di difesa tutto il Consiglio Superiore della Magistratura, con tanto di primo, secondo e terzo grado di giudizio, Cassazione compresa!
Si chiama anche “escalation of commitment” per usare un gergo psicologicamente “tecnico”.
Risoluzione finale? Animo amaro da entrambe le parti, e soprattutto, nessuno dei due probabilmente otterrà nulla di quello che realmente avrebbe voluto.
Esempio di gestione del conflitto sul posto di lavoro con modalità comunicative finalizzate a capire, esprimersi, farsi capire, rispettare il prossimo e trovare punti di incontro.
M – (con tono un po’ risentito) Ciao Alice! Ho visto lo scambio di mail e che hai presentato la versione finale del lavoro a tutto il gruppo quando non c’ero. Mi sento parecchio infastidito! Mi puoi spiegare cosa è successo?
In questo modo Marco applica l’intelligenza emotiva in 3 modi:
1 – saluta come accade fra esseri umani,
2 –manifesta il suo stato d’animo irritato che fa sempre bene, visto che reprimere le emozioni, alla lunga, fa più danni dell’uragano katrina, e non lo dico io ma la scienza,
3 -senza tirare conclusioni si attiene ai fatti che ha visto e chiede spiegazioni, per capire, prima di scegliere se permettersi di essere alterato del tutto o meno e di biasimare la collega.
A – Ciao Marco. Mi spiace vederti arrabbiato. E’ successo che ieri il Direttore ci ha chiesto entro le 16 di presentargli il lavoro proprio mentre stavamo valutando di chiedere un posticipo della scadenza di altri 3 giorni. Sono mancati i tempi tecnici sia per avvisarti prima, visto che ci hanno detto che eri fuori, sia dopo, e nel dubbio piuttosto che lasciare la cosa incompleta abbiamo preso quella che ci sembrava la decisione migliore ricordandoci anche le tue indicazioni. I modi in effetti non sono stati dei migliori ma almeno nella scelta finale ti ritrovi oppure no?
M – Ah ecco… volevo ben sperare che ci fosse una ragione valida per quello che ho visto. Diversamente, e lo specifico nel caso accada di nuovo in futuro, vorrei condividere le scelte prima e sapere quando saranno ricondivise nel team. In questo caso in effetti la decisione che avete preso mi mette in difficoltà per diversi motivi che ora ti spiego (…) come possiamo venirne fuori? Mi aiutate?
A – Si si tranquillo, a parte che non è da me, in ogni caso certo che condividerò le scelte future prima di presentarle a tutti qualora non ci fossi. Tu però le prossime volte, se dovessi sapere che a ridosso di una scadenza ti mandano fuori per lavoro, ci avvisi prima?
M – Ok sarà fatto. Anche io preso dalla fretta proprio mi sono dimenticato.. scusami. Quindi come ne veniamo fuori? Io ho questo problema adesso (…)
A– Beh credo che ci siano tempi e margini per rivedere la cosa!
Alice utilizza l’intelligenza emotiva nella gestione del conflitto lavorativo in questi modi:
1 – saluta;
2 – esprime dispiacere per il collega che vede risentito, con empatia;
3 – chiede se la soluzione individuata è condivisibile;
4 – chiede al collega per il futuro, di avvisare qualora fosse assente, usando quindi la sua assertività.
Marco a sua volta: esprime chiaramente la sua difficoltà e la necessità di trovare una soluzione, si prende l’impegno di avvisare qualora debba assentarsi vicino ad una scadenza, ed esprime cosa vorrebbe per se in futuro.
Nella tua quotidianità quante volte la gestione dei conflitti sul posto di lavoro assomiglia al primo caso e quante volte al secondo?
Quante volte “prendi la tangente” di fronte ad una situazione mal digerita e quante volte invece ti prendi del tempo per capire, prima di scegliere la riposta più opportuna usando la tua assertività?
La possibilità di scegliere la risposta di fronte ad una situazione di conflitto, prende il nome di proattività, ed è un concetto introdotto da V. Frankl, che ha condotto molteplici studi sul senso di scopo delle persone.
Reagire significa non interporre alcuna consapevolezza fra uno stimolo esterno e il nostro comportamento, rispondere significa invece prendere consapevolezza di quello che accade al nostro interno ed indirizzarlo con assertività in modo utile rispetto all’obiettivo che ci poniamo.
Farlo significa rafforzare la propria leadership, ossia la consapevolezza e padronanza di sè stessi. Qualora l’obiettivo di una conversazione sia litigare con i colleghi in modo fine a se stesso allora la modalità n° 1 è quella giusta.
Qualora l’obiettivo invece sia trovare soluzioni condivise e ridefinire comportamenti accettabili per entrambe le parti in futuro, la modalità n° 2 è quella più adatta da seguire.
Qualora invece, dopo aver raccolto il punto di vista dell’altro ti trovi di fronte ad una vera e propria scorrettezza ingiustificabile ai tuoi occhi, considera che:
a – possono esserci colleghi che per differenti ragioni e motivi, vivono di bassezze. In questo caso intanto puoi avere una fortuna magari: non assomigliargli;
b – inoltre, quando hai a che fare con colleghi che deliberatamente fanno cose a danno altrui, o per metterti in cattiva luce, o per affermare se stessi, o per screditarti, tieni a mente che il problema è loro: quasi sempre soffrono di insicurezza cronica con un ego pari ad una mongolfiera, ed hanno bisogno di sminuire gli altri per emergere.
In questo senso, sempre a proposito di vivere per se stessi un tempo di qualità, prima di dare eccessiva importanza a questo tipo di colleghi e quello che fanno, ti ricordo che nell’articolo “Un giorno lo farò: il tempo ti è nemico? Parte I” ti ho parlato di investire il tempo in funzione del tuo scopo e dei tuoi principi.
Di conseguenza il tempo da dedicare a queste persone tossiche è bene che si riduca all’osso. Puoi sempre scegliere di averci a che fare per il tempo che è imposto dal contesto, ma nulla di più.
E poi lasciarti alle spalle la rabbia e il senso di sconfitta che a volte l’esito di questi conflitti sul posto di lavoro può generare.
Inoltre, se vivi in funzione dei tuoi principi guida, disponi di una bussola interna che ti conferisce sicurezza interiore e ti indirizza nelle scelte, ed è corretto che sia l’unico riferimento rispetto al quale misurarti, piuttosto che preoccuparti della figura da stupido che magari qualcuno ci tiene tanto a farti fare…la summa di questo pensiero è resa bene da questa celebre frase dei Beatles da tenere a mente di fronte a colleghi poco corretti:
[Tweet ““Live and let die”- cit. Beatles”]
In sintesi ti ho parlato di due modi di affrontare i conflitti sul posto di lavoro rispetto all’obiettivo di trovare punti di accordo: uno più utile ed uno non utile.
Ti ho quindi parlato della differenza fra la reattività e la capacità di risposta intesa come proattività: in questi casi le differenze fra uomini e donne non hanno alcuna relazione con la maggiore o minore padronanza di queste softskills!
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Federica Crudeli

L’EMPATIA È UOMO O DONNA? SCOPRILO E USALA
Ciao e Benvenuto a Lavorare col Sorriso!
In questo articolo ti parlo di empatia, uno degli aspetti dell’intelligenza emotiva che ti aiuta nella crescita personale e professionale: cosa è, a cosa ti serve, come puoi imparare a svilupparla per gestire efficacemente i tuoi rapporti lavorativi e Lavorare col Sorriso!
Come ti ho già detto nel mio articolo introduttivo di Lavorare col Sorriso “Rapporti con i colleghi: 7 modi per farsi odiare” è affidata anche a te la buona riuscita o meno dei tuoi rapporti tra colleghi, e uno dei mezzi utilizzabili è appunto l’empatia.
[Tweet “”Solo perché emetti suoni nella mia direzione non significa che stai comunicando” cit. D. Gordon”]
Sviluppare una maggiore empatia è fondamentale, che tu sia un capo o un collaboratore di qualcuno, che tu sia uomo o donna.
L’empatia, in sintesi, è la capacità di guardare alle situazioni anche dal punto di vista dell’altro.
A dispetto delle gerarchie organizzative, infatti, i colleghi uomini/donne fanno cose per i loro motivi, non per i tuoi: comprendere quindi cosa può muovere un collega e/o collaboratore a fare o meno una determinata attività, mettendoti nei suoi “panni”con empatia, è l’atteggiamento più efficace da adottare.
Nel mio articolo dedicato alle differenze fra uomini e donne ti ho già parlato del fatto che gli uomini sono più orientati “al compito” e le donne “alla relazione”.
Quindi a proposito di empatia, continuo a parlare di queste differenze ispirandomi in parte e liberamente al testo di Jhon Gray “How to get what you want in the workplace” per precisare meglio quelle esistenti fra uomini e donne.
Mentre gli uomini generalmente comunicano all’unico scopo di risolvere un problema e/o portare a termine una attività, le donne comunicano anche per altri tre motivi: per dare e ricevere supporto emozionale, per alleviare tensioni e stress, per analizzare meglio un problema.
Capire questa differenza è un presupposto per disporre di una chiave di lettura del comportamento per migliorare l’empatia.
Vediamoli singolarmente.
Un’espressione quale “che giornata faticosa, non so se riesco a fare tutto quanto” per una donna è un modo di esprimere il suo stato emotivo e non ha alcuna finalità di biasimo (verso chi l’ha eventualmente “caricata di lavoro”) o di richiesta di aiuto (aspettativa che qualcuno la renda meno faticosa).
E’ solo un modo di alleviare la tensione e ricercare supporto condividendo uno stato emotivo negativo. Tipicamente, una collega donna fornirà il suo supporto con un “eh ti capisco, è una giornata lunga” , diversamente un uomo tenderà a minimizzare lo stress dicendo “ho visto di molto peggio”.
La differenza fra le due riposte è che la prima, per una donna significa implicitamente “vedo che esisti, ti capisco e rispetto il tuo stato d’animo”, diversamente nel secondo caso la riposta appare come un modo spicciativo per liquidare la questione e che tra l’ altro non produce, dal punto di vista della donna, alcuna visione positiva come invece sarebbe nell’intenzione dell’uomo.
Le donne attraverso l’espressione del loro vissuto alleviano la loro tensione, prima ingigantendo un problema, poi relativizzandolo attraverso il dialogo, per arrivare a rendersi conto, nel parlare, che la questione magari non era così importante come sembrava.
Un collega uomo legge questo “stra-parlare” come un tentativo di esonerarsi dal fare una cosa, un cercare scuse, un sottintendere “è troppo faticoso quindi non lo faccio”.
Anche un collega uomo può nutrire delle insicurezze rispetto al sapere fare o meno una cosa, o all’avere abbastanza tempo a disposizione, ma non lo manifesta.
Pensa internamente a sè quale soluzione può mettere in campo ed agisce. Questo processo solleva la tensione di un uomo rispetto ad un problema.
Lo stesso sollievo invece, una donna lo trova esprimendosi. Infatti, generalmente un uomo ha già chiaro quello che vuole dire prima di parlare, mentre una donna, generalmente inizia a parlare per poi scoprire gradualmente quanto vuole dire e per analizzare un problema.
Come possono quindi uomini e donne sul lavoro migliorare la loro empatia? Iniziando a comprendere i motivi che sottendono i reciproci comportamenti per inquadrarli nel giusto modo.
Quindi come prima cosa ti chiedo di ripensare al tuo vissuto lavorativo e di verificare se effettivamente ti ritrovi in questa descrizione e poi, da subito, di cominciare a porti rispetto all’altro sesso in modo differente, ora che conosci le motivazioni di fondo che giustificano queste differenze.
Ovvio che questi comportamenti valgono in media e generalmente: nulla esclude che ci siano donne con una forte componente di mascolinità che parlano solo per trattare uno specifico problema senza alcuna divagazione, e viceversa uomini con uno spiccato lato femminile che divagano rispetto alla trattazione di un tema condividendo un proprio sentire del momento.
Saper usare l’empatia significa tenere conto di queste differenze in modo da comunicare efficacemente.
Inoltre tutti i più recenti studi sulle neuroscienze e la scoperta dei neuroni specchio dimostrano che la “natura” o “diversità biologica” influenza solo in parte la nostra capacità di usare l’empatia, il cui sviluppo è comunque condizionato dall’educazione ricevuta e dall’ambiente esterno e sociale. (Qualora poi volessi approfondire la scoperta dei neuroni specchio ti consiglio il libro “So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio ” di Giacomo Rizzolati e Corrado Sinigaglia).
A questo proposito personalmente penso ad esempio, che la tendenza degli uomini a non manifestare le emozioni come fa una donna più naturalmente, sia legata alla cristallizzazione nel tempo del concetto dell’uomo Denim che non deve chiedere mai. Anche gli uomini vivono delle emozioni internamente, che per cultura e per la necessità di mantenere lo status di “forti” puntualmente nascondono o reprimono.
Poi, a prescindere dal tuo sesso, immaginati in una giornata particolarmente felice per qualche motivo: sei entusiasta, contento e magari muori anche dalla voglia di esternare quello che ti rende così contento, a qualcuno, o semplicemente, vorresti conservare questo tuo stato di grazia magari anche un po’ con la testa leggera leggera per aria. Ti si avvicina alla scrivania un capo/collega per parlarti di un compito congiunto che dovete portare a termine. La scena si svolge più o meno così:
“(senza saluti né nulla… ) avevamo da finire entro oggi quell’incarico. Vieni con me di là un attimo!”
Tu nel frattempo sei lì con la tua fibrillazione interiore di gioia e vorresti che qualcuno almeno ti dica almeno “wow che espressione soddisfatta che hai” .
Nulla di tutto questo. Il tuo collega ti ha rivolto un ciao a malapena e del tutto indifferente attaccata a parlarti di numeri, dati, cose da fare, Tizio che ha detto così poi fatto colà, l’altro che ha ritardato l’invio dei documenti che vi servono, e parla come un treno che va ai 400 km orari riempiendoti di sacchettini di parole senza sosta.
Eppure i treni ogni tanto la fanno una fermata, pensi dentro di te. Neanche i rapper professionisti parlano a quella velocità. Ma nulla. Tutto lo sproloquio, magari anche con un tono triste o monotono se non incazzoso finisce con un “ora fai questo!”.
Nel frattempo quasi divaghi con la testa ricavandoti un angolo di pace in mezzo a tutto quel parlare, sperando che termini il prima possibile.
Ecco, possiamo dire che questo è il contrario dell’empatia, ossia la capacità di entrare in sintonia con un’altra persona o di mettersi “nei suoi panni”. Io direi anche cecità emotiva, se possibile.
Le cose peggiorano notevolmente se, invece che trovarti in uno stato di grazia, fossi invece profondamente triste per qualche motivo, o preoccupato, e quindi, con poche energie e poca voglia di aprirti al mondo e interagire col prossimo.
In questo secondo caso magari ti aspetteresti, da un altro essere umano almeno un “tutto ok? Ti vedo strano/triste/silenzioso” o più genericamente una qualsiasi forma di genuina e umana attenzione per la tua persona tipo un semplice “ciao”…
Una parte di te magari pensa pure “sai a me quanto me ne frega dei tuoi dati e bla bla bla con questo pensiero martellante che ho nella testa che non mi da pace ben più importante di quanto mi stai dicendo”.
Ti è mai successo? Che sensazione hai provato?
Oppure sei tu uno di quelli che a prescindere da chi hai di fronte, fai sempre il rapper sul treno ai 400 km l’ora da tanto che sei fissato con i tuoi compiti/obiettivi/scadenze vedendo solo e soltanto te stesso e le tue incombenze?
Riconoscere gli stati d’animo altrui dagli indizi non verbali è sicuramente un punto di partenza per instaurare una comunicazione efficace usando l’empatia.
La postura, lo sguardo assente/presente, il tono di voce, l’espressione del viso, la respirazione bloccata come se uno stesse in apnea, o veloce come se avesse fatto un ironman al cardiopalma, il tipo di linguaggio usato, sono tutti elementi che entrano in gioco nella comunicazione sul lavoro e sono un termometro del tipo di scambio che è più o meno opportuno avviare, per un collega che, dotato di empatia, sappia appunto usare le circostanze a suo favore dopo averle osservate.
Quanto sei allenato a notarli? Tanto? Poco? Per nulla?
Quando li noti? Sempre, mai, occasionalmente?
Li noti poco sugli altri o anche su te stesso, cioè fai fatica a riconoscerti stati d’animo differenti di felicità, entusiasmo, gioia, rabbia, tristezza, paura, e annesse manifestazioni usuali nel mondo esterno, perché sul lavoro devi essere una macchina produttiva senza intoppi perciò tutto quanto entra nel campo della tua consapevolezza lo rifuggi per essere performante?
Quanto sei capace di esprimere i tuoi stati d’animo, senza soffocarli ma anche senza soffocare/travolgere un altro collega?
Un buon modo per migliorare l’empatia è, qualora anche tu abbia difficoltà con te stesso, iniziare a prestare attenzione al tuo linguaggio non verbale e alla tua vita emotiva. E’ un po’ difficile poterlo notare negli altri quando non siamo capaci ad osservarlo in noi stessi.
Come si fa? Osservati. Ascoltati. Senza giudizio rispetto ai tuoi vissuti emotivi e cognitivi. Spesso il censore interno che abbiamo, soprattutto se il nostro vissuto è negativo, tende a dirci “no, ma così non si fa, così non ci si fa vedere di fronte agli altri, così non sta bene” etc.. Il risultato finale? Si rischia di diventare delle foglie morte senza linfa. Ci si spegne.
Premesso questo, per “creare” rapporti lavorativi efficaci col prossimo usando l’empatia, è appunto importante considerare che questo prossimo esiste, è umano come te, ha gioie/difficoltà come te e magari ha bisogno di sentirsi “visto” prima di essere oggetto di “rapperaggio spinto”, romanticamente o aggressivamente connotato che sia.
L’uso dell’empatia consente di creare un clima di fiducia, apertura e reciproca comprensione ed è presupposto basilare per una comunicazione efficace.
Vuoi allenarti ad entrare in empatia con i colleghi? Allenati ad osservare gli altri in generale.
Tutti i momenti sono buoni: in attesa davanti alla fermata del treno, bus, metropolitana, in coda alle poste, al supermercato, invece che tenere la testa impiantata dentro al tuo smartphone, osserva gli altri e il loro modo di parlare, la postura fisica, lo sguardo, l’espressione, improvvisamente ti renderai conto di far parte di un mondo che non necessariamente è rinchiuso nei profili facebook o instagram delle persone. Dal vivo c’è il sonoro! E’ più interessante!
Per quanto mi riguarda, ad esempio, pur considerandomi una persona dotata di empatia, ho fatto comunque questo esercizio, soprattutto per impegnare i momenti di attesa che consideravo come “tempi morti” finchè un coach uomo (vedi vedi che anche gli uomini badano a queste cose) mi ha suggerito ironicamente come potevo sfruttarli, con la freddura “perché, per te esistono i tempi vivi e i tempi morti, oppure i tempi che consideri morti puoi farli vivere in qualche modo?”.
Ovvero potevo “ammazzare” quella che per me era la noia mortale delle attese, in momenti di “sperimentazione” , “osservazione” e “allenamento” all’empatia. Rafforzare la sensibilità ad osservare e riconoscere il linguaggio non verbale degli altri mi è servito molto. E nella vita in generale.
Una volta che hai acquisito una maggiore capacità tanto di leggere meglio te stesso quanto gli altri, cosa ci fai?
Usi questa tua capacità per costruire relazioni più efficaci, dosando l’espressione della tua emotività, delle parole che usi e il momento adatto per parlare considerando anche l’altra persona nella tua conversazione non come un soprammobile che è lì per rispondere a dei comandi, ma come un umano.
Anche semplicemente proporre una idea o iniziativa o affrontare una discussione quando l’altro non è presente a sufficienza se non addirittura indisponibile, è controproducente sia per te, che corri un elevato rischio di non ottenere il tuo obiettivo, che per l’altra persona che magari ti archivia nella RAM della sua memoria come persona sgradevole con cui avere a che fare e senza empatia. Poi non lamentarti se i colleghi ti scansano!
[Tweet ““Sono umano, e niente che sia umano mi è estraneo”. cit. Erich Fromm”]
Ricapitolando ti ho spiegato la differenza fra i motivi per i quali in genere uomini e donne comunicano sul lavoro, cosa è l’empatia in modo pratico, ti ho dato spunti di riflessone per imparare a guardare meglio a te stesso, ti ho detto che l’avere empatia non dipende dalla tua diversità biologica di uomo e donna, ma più da fattori culturali/educativi/ambientali e ti ho dato un primo esempio pratico per allenarti ad osservare gli altri per costruire una modalità comunicativa empatica efficace.
Tornerò ancora sul tema dell’empatia, del linguaggio non verbale e delle modalità con cui sviluppare o affinare le tue capacità di utilizzare l’empatia a tuo vantaggio.
Nel frattempo lasciami un commento e dimmi quali riflessioni hai fatto o quale argomento vorresti fosse trattato o approfondito.
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MANAGER O LEADER? QUALE TIPO SEI?
[distance1]Ciao e Benvenuto a Lavorare col Sorriso!
La consapevolezza di sè: manager, leader, perfezionista, diplomatico, creativo, altruista, pensatore, scettico, avventuriero, mediatore … che carattere hai? Quali schemi ripeti? Come ti vedono gli altri? Perchè è importante saperlo? Oggi ti parlo di 9 tratti caratteriali, frutto di una sapienza antica, con cui è possibile “andare nel mondo” che ti guideranno a riconoscerti!
Utilizzando provocatoriamente il concetto di un filosofo esistenzialista , che suona come un po’ ironico:
[Tweet “”Ognuno è condannato ad essere se stesso…” cit. J.P. Sartre”]
Quando è che essere se stessi diventa una condanna? Quando sia ha una scarsa consapevolezza di sè.
Schemi di comportamento ripetitivi e disfunzionali
Ripensa a tutte le volte che sul lavoro hai reagito come un mitra a qualche atteggiamento di altri senza darti il tempo di riflettere per poi pentirtene … la tua consapevolezza dove era?
Ripensa magari a quando hai mancato, per l’ennesima volta, di asserire quello che pensavi scegliendo in automatico di abdicare alle tua capacità relazionali e rimuginando su quel non detto per le successive tre ore o magari giorni…
Ripensa a tutte le volte che ti sei ritrovato solo con te stesso a dire che proprio non potevi fare a meno di comportarti in un certo modo, anche se avresti voluto fare diversamente, ma c’è sempre quel qualcosa più grande e forte di te che ti spinge in una direzione e non riesci a controllarti, un po’ come se avessi inserito un pilota automatico che ti guida in una direzione mentre tu resti a fare i conti con il tuo senso di impotenza di fronte a te stesso.
Ognuno di noi, nessuno escluso (se può consolarti) in alcune occasioni attiva questo pilota automatico anche quando la direzione è un burrone, ovvero può manifestare schemi comportamentali disfunzionali (e inconsci, noti anche con il termine “coazione a ripetere”) talmente radicati a causa di “introiezioni” pregresse che, sebbene in ultima analisi allontanino da un obiettivo, non c’è nulla da fare, ti portano dalla parte sbagliata.
Non averne la consapevolezza significa esserne schiavi.
Se ti stai domandando cosa significhi “introiezione”, ti dico che l’introiezione è un meccanismo di “assimilazione” di alcuni comportamenti che è avvenuto quando ancora non disponevi degli strumenti “adulti” per poter distinguere cosa fosse il caso di fare tuo da cosa non lo era. Più introietti hai, meno sei consapevole.
Continuo con il proposito di guidarti verso una maggiore consapevolezza di te stesso da un altro punto di vista: con l’articolo di oggi ti parlerò di Enneagramma, una chiave di lettura del carattere (ne seguiranno altri sul tema) che ti sarà utile:
[list-ul type=”arrow”][li-row]per aumentare la consapevolezza di te stesso, con conseguenti ripercussioni positive anche in termini di crescita professionale, ad esempio per disporre di qualche elemento in più per valutare la coerenza fra il tipo di lavoro che svolgi e i tuoi tratti caratteriali[/li-row][li-row]per divertirti a “riconoscere” il tuo carattere e quello delle persone che ti circondano e ad osservarne meglio i comportamenti in modo più distaccato e oggettivo al fine di entrarci in relazione se ti interessa o se le circostanze lavorative “ti obbligano” a farlo[/li-row][/list-ul][distance1]
Cos’è l’Enneagramma?
L’Enneagramma è una delle mappe esistenti per la comprensione della personalità umana ossia una chiave di lettura del comportamento umano la cui conoscenza aumenta la consapevolezza. Può essere utilizzato anche dalle risorse umane in ambito organizzativo nella valutazione dei candidati.
L’Enneagramma è stato introdotto in occidente all’inizio del ‘900 da Georges I. Gurdjieff, dopo averlo riscoperto in Asia centrale, in quanto frutto di una tradizione che si è tramandata per via orale partendo da una sapienza antichissima (ennea dal greco 9 e gramma segno).
E’ stato poi sistematizzato da Oscar Ichazo e da Claudio Naranjo in chiave psicologica in tempi recenti.
In sintesi, possiamo distinguere 3 famiglie caratteriali: gli istintivi (tipi 1-8-9), gli emotivi (tipi 2-3-4), i razionali (tipi 5-6-7), che tendono a mettere in campo nel vissuto della realtà rispettivamente: rabbia, tristezza e paura come principale sentimento di riposta al contesto ambientale, per un totale di 9 tratti caratteriali o “enneatipi”. Ogni singolo tratto è poi dominato da una “passione dominante”e da una “fissazione” specifica.
Specifico che parlo di tratti caratteriali proprio perché ogni essere umano è unico e non etichettabile e queste sono solo chiavi di lettura e comprensione che sono convinta tu ritroverai nel tuo quotidiano …
Ad esempio… fai mente locale alle persone che conosci. Ti è mai successo di notare che alcune persone sono accomunate/simili nella loro fisicità, nelle parole che usano, nel modo di affrontare la vita, nella carica vitale che hanno? Sono tutte diverse e uniche, ma accomunate da “tratti” distintivi.
Oppure di avere nella cerchia di amici e colleghi, persone che sono “etichettate” per una loro caratteristica particolarmente visibile e genericamente riconosciuta non solo da te ma anche dagli altri? Scommetto di si.
Come scommetto che anche tu puoi contare su una serie di nomignoli e soprannomi che nascono da una tua qualche predisposizione caratteriale.
Divertiti un po’ adesso. Guarda a te stesso e pensa ai tuoi colleghi e vedi se riesci a ricondurli a quello che leggerai sotto.
Intanto vediamo un assaggio…
Come si legge l’Enneagramma?
[list-ul type=”arrow”][li-row]Le ali –sono le porzioni di cerchio a destra e sinistra di ogni tipo e stanno ad indicare le sfumature caratteriali rilevabili in un individuo. Di norma un enneatipo assume anche i connotati caratteriali di uno e uno solo dei due enneatipi attigui.[/li-row][li-row]Le direzioni – sono le linee che partono da ogni “carattere base” puntando ad altri due ed indicano le modalità comportamentali caratteristiche di un altro enneatipo, che un “carattere base” può attivare in condizione di stress o in condizioni di serenità.[/li-row][/list-ul]
In alcuni tipi, inoltre, è possibile rintracciare in modo più significativo un bisogno nucleare dell’infanzia che è stato percepito come negato e di cui ho iniziato a parlarti nel mio articolo “Il corpo, non mente?Riflettici” : parlo dei tipi 1, 2,5,8 e 9.
[button url=”https://lavorarecolsorriso.it/wp-content/uploads/2016/04/leggi-lEnneagramma.pdf” target=”_blank” color=”jade” size=”medium” border=”true” icon=””]Leggi l’Enneagramma[/button]
Torno a dire … a cosa ti serve conoscere l’Enneagramma?
Beh… ogni persona filtra il suo sguardo sul mondo in modo completamente diverso. Se nella tua vita lavorativa hai provato spesso la sensazione di parlare e non essere capito, forse è perché ti manca la chiave di lettura giusta per entrare in relazione con una determinata persona (e magari anche per guardare a te stesso con un occhio diverso dal solito e più consapevole).
Parliamo tutti la stessa lingua eppure, spesso, non ci capiamo proprio, con annesso dispendio di tempo ed energie mentali per tentare di raggiungere obiettivi comunicativi puntualmente mancati.
Nei miei articoli ti condurrò alla scoperta di come sia possibile entrare in relazione, se le circostanze te lo richiedono, anche con i colleghi che vivi come molto distanti da te, così come ad aumentare la consapevolezza che hai di te stesso. E scoprirai come questo ti tornerà utile non solo sul lavoro, ma ovunque e con chiunque.
Quali conseguenze ha avere un certo carattere, ovvero essere un certo enneatipo?
A questo proposito ritorno alla frase iniziale “ognuno è condannato ad essere se stesso” e al concetto del pilota automatico. Ogni enneatipo ha una tipologia di pilota automatico differente ma normalmente attivato in certe circostanze.
Capire quali siano queste circostanze e cosa lo fa scattare, significa disporre di uno strumento in più per disinserire il proprio pilota automatico ed evitare il burrone, e neutralizzare gli effetti subiti dall’inserimento del pilota automatico “altrui”.
Ti sei riconosciuto in una di queste descrizioni sintetiche?
Si? continua a seguirmi nei miei articoli.. scoprirai cose ancora più interessanti su di te.. e come l’essere caratterizzati da alcuni tratti influenzi il tuo modo di manifestarti del mondo in termini di pensieri, emozioni, energia, gestione dei rapporti con gli altri …e come sia possibile disinserire il pilota automatico “smussando” alcuni tratti non funzionali alla tua crescita personale e professionale.
No. Fai fatica a riconoscerti? O ti sembra di riconoscere alcune tue caratteristiche in più enneatipi diversi? Nulla di strano, crescendo ognuno di noi puoi “mixare” i suoi tratti base con altri tratti.
In questo caso ti invito intanto a fare mente locale alla tua infanzia, dove le reazioni primarie nel mondo erano ancora incontaminate, istintive e poco filtrate da dettami educativi,scolastici e religiosi.
Ripercorri mentalmente i tuoi primi anni di vita. Quale sentimento pensi di aver sperimentato più spesso, in modo istintivo, o ti veniva più naturale “sentire” nei momenti che hai vissuto come brutti o di difficoltà? La paura, la rabbia, o la tristezza?
Ripensarci ti avvicina adesso un po’ di più all’identificazione con uno di questi tipi?
Seguimi nei miei articoli.. approfondirò anche il tema dei bisogni negati e di come fare a capire bene come si sono formati, se ce ne sono stati nel tuo caso e se il fatto che tu ancora oggi, inserisci il pilota automatico, abbia qualcosa a che fare con il tentativo perpetuo di soddisfare un bisogno che vivi come una mancanza senza accorgertene.
Riconosci immediatamente questi tratti caratteriali nel tuo capo o nei tuoi colleghi e collaboratori, o altre persone con cui hai normalmente a che fare?
Quali riflessioni ti suscita leggere queste cose?
Fammi sapere cosa ne pensi lasciandomi i tuoi commenti.
Continua a seguirmi, ho intenzione di entrare nel dettaglio dei singoli enneatipi nei futuri articoli, per mostrarti in che modo ognuno di essi può superare le “resistenze” tipiche del proprio carattere disinserendo il pilota automatico per instaurare relazioni lavorative più proficue ed imparare a Lavorare col Sorriso!
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Federica Crudeli
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A scanso di equivoci … è una lettura “impegnativa”…
L’enneagramma. La geometria dell’anima che vi rivela il vostro carattere
2 feb. 1996 di Helen Palmer e G. Fiorentini
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