
IL MEDIOCRISTAN E LA RELATIVITA’ DI EINSTEIN. RIFLESSIONI PERSONALI SUL MONDO AI TEMPI DEL CORONAVAIRUS
E’ importante, al fine di vivere una vita piena, imparare a trovarsi, capirsi e poi realizzarsi secondo la propria natura e misura, ossia nel rispetto dei propri limiti.
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INSICUREZZA: FACCIAMO CHIAREZZA!
Ciao e Bentornata/o a Lavorare col Sorriso!
Cosa è l’insicurezza? Facciamo chiarezza! Oggi ti parlo di cosa è, degli effetti collaterali che ha, quando nasce, di come riconoscerla, di come gestirla e di come esserti amico!
[Tweet ““ Mi chiedi qual è stato il mio più grande progresso? Ho cominciato a essere amico di me stesso”– cit. Seneca “]Lo spunto per il post nasce da una recente conversazione sul tema.
Penso abbia più senso parlare degli effetti dell’insicurezza, dato che definirla secondo una sintesi dei manuali di psicologia equivale a:
“avere poca fiducia in se stessi, dubitare delle proprie capacità di riuscita in uno o tutti gli ambiti della vita e dubitare molto frequentemente del proprio valore o sentirsi frequentamente minati/intaccati/rifiutati nel nostro valore a seguito di inneschi esterni” .
E definita così potrebbe continuare ad essere un concetto poco chiaro.
Ci sono moltissime persone che si muovono nel mondo in modo deciso, estroverso, sicuro, ma sono, in ultima analisi, insicure.
L’insicurezza difatti è un atteggiamento che poco ha a che fare con come ci muoviamo nel mondo esterno ma molto ha a che fare con come noi ci rapportiamo a noi stessi.
L’insicurezza non ha nulla a che vedere con l’avere dei legittimi dubbi di fronte ad una scelta o al mettersi in discussione di tanto in tanto, o al chiedere consigli/pareri/opinioni.
Parlare in termini di effetti dell’insicurezza forse semplifica le cose.
Quindi che effetti ha l’insicurezza interiore?
Alcuni esempi sono:
la paura di essere inadeguati alle circostanze o il temere di non essere all’altezza delle situazioni;
lo scambiare una divergenza di opinione su un tema come un attacco a tutta la propria persona;
sentirsi giudicati sul proprio operato o molto suscettibili frequentemente: basta una mezza parola su un compito svolto poco gradita che la persona si sente denigrata/umiliata/derisa/presa in giro/cretina/stupida;
l’attaccare per difendersi anche quando non è appropriato alle circostanze;
il dubitare frequentemente se una nostra opinione ha diritto di esistere;
il cercare fuori nel mondo dei metri di giudizio sulla base dei quali valutare le nostre esperienze o il nostro valore;
l’essere molto inclini alla permalosità: una critica o rimostranza diventano spesso insopportabili;
il reprimere o negare del tutto le emozioni oppure il manifestarle in eccesso senza freni;
sentire la necessità di sminuire i complimenti ricevuti;
voler imporre una propria idea sugli altri come l’unica verità accettabile.
Da cosa è originata l’insicurezza?
Normalmente dai modelli educativi appresi a scuola o in famiglia: quando un umano è sottoposto continuamente allo stress di dover dimostrare di essere bravo per guadagnarsi l’amore (che invece dovrebbe essere incondizionato), può tendere a diventare insicuro, come se stesse continuamente affrontando una prova d’esame.
Nell’educazione famigliare, in teoria, dovrebbe esistere un equilibrio fra la gratificazione dei bisogni di un bambino e la frustrazione degli stessi.
Se la bilancia propende nella maggior parte dei casi per la frustrazione dei bisogni di un bambino, soprattutto entro i primi 6 anni di vita, il bambino da adulto con molta probabilità può diventare un insicuro cronico.
Avete presente quei “non fare questo, non fare quello, no attento lì che ti bagni, no attento che lì ti fai male, no attento che mi dai fastidio, no attento perché non voglio, no attento perché, perché, perché…”
Somministrazioni indebite di paure e ansie a go go!!!
Non ho detto che un bambino debba sempre e comunque essere assecondato: ribadisco quindi che deve esistere un equilibrio fra le volte in cui i suoi bisogni vengono assecondati e le volte in cui vengono frustrati.
Ovvio che se un bambino vuole buttarsi da un balcone (dato che non conosce il pericolo) è sano e normale che un genitore lo fermi.
Se però ad esempio un bambino viene “fermato” in tutte le sue esplorazioni innocenti e curiose in assenza di pericolo, il messaggio che riceve è che qualsiasi suo sano tentativo di emanciparsi, sentirsi sempre più autonomo e in grado di valutare da solo progressivamente i pericoli, è qualcosa di sbagliato.
Incomincia a pensare che “da solo” non è in grado e se non è in grado è un incapace, e se è un incapace, non vale nulla, non merita nulla.
Tutto ciò un bambino non lo assimila cognitivamente, ma a livello di sensazioni corporee, che è anche peggio, perché tutto quanto resta “scolpito” nei nostri sensi e muscoli è poi molto difficile da “estirpare” a livello solo cognitivo e razionale nella vita adulta.
Sente che nulla di quello che è ha valore, o sente che ha valore solo nei limiti in cui accontenta un adulto, o comunque di dover sempre “tendere” a un qualche modello di perfezione estraneo a sè.
I bambini vogliono solo sentirsi “visti e importanti” per il genitore, per le maestre etc.. e ognuno tenta di soddisfare questo bisogno nei modi più disparati.
Quando la soddisfazione di questo bisogno è per la maggior parte del tempo negato/rifiutato, ripeto, sono state poste le basi dell’insicurezza.
Oppure pensiamo all’educazione scolastica: i bambini vengono messi in competizione da subito con i voti.
Chi prende un voto alto di solito entra nelle grazie della maestra. Chi non lo prende è un lavativo.
In realtà la storia è piena di geni che a scuola non studiavano o andavano male…………
Per non parlare di una rigida educazione religiosa di qualsiasi tipo: pane e sensi di colpa.
Come si riconosce e alimenta l’insicurezza?
Con il dialogo interiore negativo, il rimuginio continuo e la messa al vaglio di cose dette e fatte etichettate come “inadeguate”.
In altre parole, in base a cosa noi diciamo a noi stessi chiusi fra le mura di casa, rischiamo di alimentare di continuo la spirale dell’insicurezza:
chissà se ho fatto bene, chissà se ho fatto male, chissà se potevo dire/fare meglio, chissà, chissà, chissà.
Sono un’incapace! Che cretino/a! Perché non ci ho pensato prima!
Ecco ho sbagliato di nuovo!
Ma perché non ne azzecco una? Uffa allo specchio non mi posso guardare. Sono grasso/magro/troppo vecchio/sembro un bambino.
Alimentiamo la nostra insicurezza ogni volta che usiamo parole negative verso noi stessi: magari facciamo bene 100 cose in una giornata ma ci ricordiamo solo quell’unica venuta male e ce la ripetiamo nella testa 400 volte, quasi come se, ripetendola, si potesse cambiare il passato.
Come se ne esce dall’insicurezza?
Aumentando la propria consapevolezza di sé.
Ascoltandosi.
Iniziando a portare l’attenzione sulle parole che usiamo per definirci, descriverci, descrivere noi al mondo e il mondo a noi stessi e sostituirle con parole clementi.
Che poi, è facile magari osservare come “l’insicurezza” diventi virulenta con particolari inneschi esterni.
Ci sono persone ad esempio molto sicure di se nel lavoro, ma per nulla nella gestione degli affetti. O viceversa.
Osservati, individua quanto frequentamente, in che circostanze, con quali persone, perché e come scattano meccanismi di “insicurezza”.
Immaginati di parlare ad un caro amico: lo riempiresti di insulti oppure cercheresti di averne comprensione quando si comporta poco bene e anche se a volte ti fa arrabbiare da matti?
Sono sicura che magari ti arrabbi sul momento, poi capisci e perdoni.
Fai la stessa cosa con te stesso.
Che non significa allora diventare dei palloni gonfiati, ma semplicemente parlarsi in modo più compassionevole e dolce.
Anche a me capita di arrabbiarmi con gli amici. Poi però, se lascio sedare la collera istantanea, dopo, cerco di capire, e alla fine, quasi sempre, malgrado l’irritazione, perdono.
Ho imparato a farlo solo molto più tardi con me stessa.
Anzi, a dire il vero, ora sono molto più tollerante con me stessa e molto meno con gli altri .. sarà perché ho dato troppa comprensione fuori per troppo tempo che avrei invece dovuto rivolgere a me!!!
E poi, ancora, come si gestisce l’insicurezza?
Accettandosi!
Che pare facile da dire, difficilissimo da fare per esperienza tanto mia quanto delle persone che ho incontrato nei percorsi di coaching e counseling che faccio.
Accettarsi è la parte più difficile. Riconoscere di avere dei difetti, delle debolezze e farsele amiche. Riderci su. Sdrammatizzare. Perdonarsi. Stare più leggeri.
La tendenza naturale che abbiamo è quella di difenderci dai nostri difetti e non voler ammettere i nostri errori/debolezze.
Quante volte nella vita vi succede di dire ad altri “si, lo ammetto, ho sbagliato” serenamente?
Più spesso accade invece di non voler fare i conti con le nostre fragilità e di volerci “difendere” a tutti costi.
La classica espressione quando ci si sente minati/feriti/intaccati nel nostro valore è “tu non mi capisci, tu non mi hai capito/ tu non devi pensare/dire così/ non è vero quello che dici”.
Questo significa in automatico non essere disponibili ad accettare verità di altri e neanche legittimare gli altri a manifestare bisogni/dubbi/sentimenti etc perchè questo ci fa sentire “minati” nel nostro sentirci adeguati e ci mette di fronte alla possibilità che, magari in buona fede, possiamo aver ferito qualcuno.
Ecco, la sicurezza è anche questo: accettare che si può sbagliare, poterselo dire, poterlo dire agli altri e vivere comunque sereni.
Occorre andare nel mondo consapevoli che la perfezione è un’ideale stupido, così come è stupido rincorrere l’idea di noi stessi che vogliamo dare nel mondo e che ci siamo costruiti nella testa pur essendo troppo distante dalla nostra vera essenza.
Vale la pena smettere di compiere tanti sforzi per correggersi.
Nessuno è perfetto, siamo tutti umani!
L’insicurezza è dubitare del proprio valore o sentirlo fortemente minato per cose di piccolo conto: una critica, una rimostranza di un’altra persona.
L’insicurezza è il non concedersi o permettersi di mostrare le proprie emozioni per paura di esserne giudicati oppure il mostrarle salvo poi sentirsi inadeguati.
E’ sano che una persona ambisca a migliorarsi: ma una cosa è rinnegare parti si sé e volersi migliorare, molto meglio è accettare tutte le nostre parti e volersi migliorare.
Nel primo caso, più tentiamo di rinnegare qualcosa di noi che non ci piace, più reputiamo sbagliate parti di noi, più questo qualcosa diventa prepotente e ingestibile.
C’è una frase del film “Come un gatto in tangenziale” che secondo me rende bene il concetto, recitata in romano dal personaggio di Paola Cortellesi ed è “l’importante è che me’ so’ capita io”.
Vi confesso che ultimamente me la ripeto molto spesso.
A dire… ma chi se ne importa di passare la vita a discutere, a voler convincere gli altri di qualcosa, a voler dimostrare ragioni e torti, a volersi difendere da minacce esistenti solo nella nostra testa, a voler ergere la nostra verità come la migliore su quella degli altri?
L’importante è che ogni persona abbia una dose di pace interiore tale per cui, ad un certo punto, quello che succede fuori, succede fuori. E resta fuori. E non intacca più di tanto il senso del nostro valore o di adeguatezza che ci portiamo dentro.
Il tema meriterebbe molte altre parole, ma al momento mi fermo qui.
In conclusione, che fare con questa insicurezza? Ascoltarla, riconoscerla, capirne gli inneschi esterni, accettarla, prenderla per mano e mandare anche un po’ “a spigolare” tutto il resto!
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Federica Crudeli
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GESTIRE COLLEGHI DIFFICILI: L’INFERNO SONO GLI ALTRI?
Ciao Bentornato a Lavorare col Sorriso!
Oggi ti parlo di come gestire colleghi difficili con una riflessione guidata attraverso 8 domande.
[Tweet ““ L’inferno sono gli altri”– cit. J.P. Sartre”]Intanto, come possiamo qualificare i colleghi difficili?
I colleghi difficili sono quelli con i quali fai fatica a collaborare per traguardare un obiettivo – in teoria – comune: in generale sono coloro con cui lavorare in modo fluido e scorrevole è un’utopia.
Sembrano nati apposta per complicare le cose inutilmente, sono poco trasparenti, sono bravissimi a girare frittate al punto che potrebbero aprire un ristorante, cambiano le carte in tavola senza grossi problemi, ritorcono i fatti sempre a loro favore e tengono tanti altri ameni comportamenti.
Sono quelli che ti tolgono la pazienza, e che ti fanno urlare con te stesso dal nervoso!
Ossia lavorarci per traguardare un obiettivo comune ti costa la stessa fatica che faresti se pretendessi di scalare il Monte Bianco a mani e piedi nudi senza protezioni (esagero un po’ volutamente).
E’ piacevole avere a che fare con queste persone? No.
Mi rifaccio al commento di una lettrice che riferita al mio precedente articolo “Colleghi difficili: i melliflui” ha scritto: “in definitiva, come si può fare a gestire i colleghi difficili?”.
Allora colgo questo suggerimento e mi spiego meglio, consapevole che mentre lo scrivo in realtà faccio un esercizio mentale che servirà anche a me stessa, dato che non sono immune dall’avere a che fare con persone simili.
L’obiettivo di questo articolo non è spiegare come riuscire a cambiare un collega difficile, quello è impossibile e credo di averlo ribadito più volte, quanto piuttosto spiegare come potersi “immunizzare” dall’effetto negativo che hanno su di noi.
L’obiettivo è individuare dei modi per Lavorare col Sorriso, ossia lavorare senza buttare nel water energie psichiche, emotive (e anche fisiche) inutilmente facendo guerre sterili e che non portano da nessuna parte se non a danneggiare te stesso.
Domanda n° 1 – il collega in questione è difficile solo con te o con chiunque?
Già rispondere a questa domanda può alleviare la quantità di energie emotive che un collega difficile può “risucchiarti” o meno: mettere a fuoco se è solo un problema tuo o di molti altri rapportarsi con lui efficacemente, penso potrebbe “sollevarti” da un eventuale senso di inadeguatezza.
Se osservi il comportamento della persona in più occasioni e con più persone, avrai modo di dare una riposta a questa domanda.
Dove voglio arrivare? Se il collega difficile in questione è difficile solo con te, inizia a mettere in conto che forse non hai ancora esplorato modi differenti per rapportatici in modo efficace.
E quindi, è più semplice di come sembra: identifica quello che altri fanno per gestire il collega difficile, e ottenere da lui quello che vogliono e usa lo stesso modo.
Studialo, osservalo, chiedi opinioni ad altre persone per capire cosa funziona meglio con questa persona.
Domanda n° 2 – se è un collega difficile con tutti, allora, cosa fai?
Intanto, nel caso tu sia una di quelle persone per cui è molto importante andare d’accordo con tutti, comincia a mettere in conto che in questo specifico caso, probabilmente, a inseguire questa meta rischi di avvelenarti e basta.
Non sta scritto da nessuna parte che io, te, o chiunque altro dobbiamo per forza piacere a qualcuno o che qualcuno debba piacerci per forza, e che dobbiamo essere tutti amici o amichevoli.
Abbandona l’idea di volerci andare d’accordo per forza e comincia a pensare che siete colleghi e che i rapporti possono restare civili e nei limiti del rispetto ma nulla di più.
E poi, fai mente locale allo stato emotivo che ti pervade quando hai a che fare con questa persona: perdi la pazienza? Ti angoscia? Ti irrita il sistema nervoso? Ti fa salire la collera? Ti rende triste? Ti mette ansia o paura?
Che effetto ti fa di solito? Che pensieri ti si agitano in testa quando hai a che fare con questa persona?
Domanda n° 3 – per quale motivo lavorativo hai bisogno di questa persona?
Identifica bene le ragioni lavorative per le quali hai bisogno del collega difficile e circoscrivi i rapporti il più possibile a queste circostanze.
Magari potresti addirittura identificare, dopo una attenta analisi, che lo stesso bisogno lavorativo potresti serenamente soddisfarlo con l’aiuto di altri colleghi meno malmostosi.
Domanda n° 4 – capisci le sue leve motivazionali?
Voglio dire, osservalo. Per quanto possa esser un collega difficile, se ti prendi un po’ di tempo e scrivi su carta e penna come si muove solitamente, identificherai dei “pattern” ossia dei modelli ricorsivi di comportamento (verso di te così come di altre persone) che lo muovono a fare/non fare delle cose.
Domanda n° 5 – come puoi usare a tuo vantaggio queste modalità comportamentali?
Qualsiasi comportamento che avrai identificato, molto probabilmente avrà degli svantaggi per te, ma anche dei vantaggi.
Cioè, quale è il lato positivo di cui potresti beneficiare dal comportamento “negativo” del collega difficile?
So che potrebbe sembrare strano, ma qui si tratta di diventare un po’ una specie di “giratore di frittate”: anche quando ti sembra di rilevare solo elementi negativi dall’interazione con questa persona, se ti prendi il tempo di pensare e scrivere (e sottolineo scrivere) un elenco di tutti i comportamenti che non sopporti, intanto emotivamente ti scarichi, poi ne prendi anche un maggior distacco, e poi visti tutti nell’insieme ti suggeriranno degli aspetti che fino ad oggi non avevi considerato.
Domanda n° 6 – come ti prepari?
Adesso che hai davanti un elenco di comportamenti osservati disdicevoli ai tuoi occhi, che gli hai abbinato lo svantaggio che portano a te, e il lato positivo che ne può derivare, puoi anche scegliere da quali di tutti questi comportamenti vuoi “proteggerti” in particolare.
E sarai anche in grado di sapere ogni volta che avrai a che fare con questa persona, che cosa ti potrai aspettare. Questa aiuta ad abbassare la tua tensione interiore.
Fidati, la storia si ripete. Tutti siamo più prevedibili di quanto crediamo, agli occhi di un osservatore attento.
Adesso che hai il quadro completo davanti, e che hai messo a fuoco quello che mediamente puoi aspettarti da questa persona, potresti anche sentirti sollevato e magari intravedere anche cosa lo “muove” nel bene e nel male a fare o meno cose che ti interessano.
Fai pace con l’idea che ti ritroverai spesso di fronte a un set pre-definito di “carognate”, cambieranno le circostanze, cambieranno i momenti, ma in media, adesso, sai cosa aspettarti e anche pensare prima a come “parare i colpi” oppure volgere a tuo favore le circostanze avverse, oppure ignorare del tutto le cose che farà, senza farti scalfire più di tanto.
Domanda n° 7 – ridefinisci il tuo obiettivo lavorativo ed emotivo verso il collega difficile.
Posto che hai fatto quanto ti ho detto sopra, adesso, alla luce di quello che vedi, che obiettivo cognitivo, emotivo e lavorativo ti dai verso questa persona?
Come vorresti essere ogni volta che avrai a che fare con lui/lei?
Sereno, distaccato, freddo, ironico, indifferente?
Cosa vuoi che ti scivoli di dosso?
E di che risorse disponi (pazienza, diplomazia, ironia, allegria, entusiasmo) per ottenere questo risultato?
Quanta importanza vuoi che abbia in futuro? Tanta o poca?
Domanda n° 7 – respiri?
Avere a che fare con colleghi difficili, può essere sfibrante.
Magari la tentazione di mandarlo a fare un giro del mondo con uno schiaffo sono alte, ma per pacifica convivenza è bene che non si arrivi a questi punti.
Quindi, quando ti ci rapporti, respira profondamente. Respirare profondamente con il diaframma calma la mente e l’emotività.
Domanda n° 8 – cosa dice di te questo rapporto lavorativo?
Un modo per far fruttare questa situazione a tuo vantaggio è anche riflettere su quello che “ti smuive dentro” gestire il collega difficile.
Al di là del fatto che la situazione è quella che è, e che il collega difficile resta tale, e che valgono le riflessioni già fatte sopra, usa questa occasione per scendere più a fondo nella tua irritazione: potresti renderti conto che la tua insofferenza cela anche un conflitto irrisolto con te stesso e che tale conflitto “amplifica” ancora di più l’insofferenza che comunque normalmente avresti a gestire rapporti con il collega difficile in questione, per un qualche problema che hai perso di vista.
Vista in questo modo, potresti quindi anche mettere in luce una qualche fonte di insoddisfazione che magari involontariamente nascondi a te stesso, ma che si esaspera ogni volta che vieni a contatto con questo collega.
Se così è, adesso hai una occasione per guardare a questo tuo vissuto in modo più ampio e più costruttivo per rimettere a fuoco alcuni aspetti della tua vita lavorativa “celati” sotto questa irritabilità/insofferenza indotta dal collega difficile.
Considerazione finale: perché i colleghi difficili sono difficili?
In teoria nelle organizzazioni, sarebbe bene perseguire obiettivi win – win, ossia soluzioni che siano di vantaggio per te e per la persona con cui ti rapporti.
Questo presuppone apertura mentale, capacità di mettersi in discussione e di capire empaticamente il prossimo ed andare incontro anche ai punti di vista degli altri, senza che farlo sia vissuto come una minaccia.
Dico in teoria perché nella realtà – povero Nash – spesso alcune persone hanno il cervello che è rimasto sviluppato allo stadio rettile, cioè malgrado l’umanità si sia evoluta e il cervello sia arrivato a sviluppare la neo-corteccia, continuano a perseguire solo il loro interesse, spesso volontariamente o inconsapevolmente, a scapito altrui, o senza prendersi “la briga” di mettersi minimamente in discussione.
In altre parole, se magari stai dubitando di te stesso e ci resti male a cercare collaborazione senza trovarla, ti ricordo che il problema è loro, non tuo.
Voglio dire, prima di dare a te stesso/a dell’incapace o di arrivare a dubitare delle tua capacità e qualità (perché questo rischio esiste a forza di rapportarsi con persone simili), metti dei confini “mentali” che ti preservino dal cadere in questa tentazione.
E per evitare che al mondo proliferino persone così, è bene evitare di cadere al loro stesso livello.
Il mio invito è quindi di innalzarti al di sopra delle bassezze altrui e fare buon uso della tua intelligenza.
E ogni qualvolta cadrai nella tentazione di avvelenarti la giornata, perché magari sarai stato oggetto di qualche “bastardata”, pensa che tu hai una grande fortuna: sei diverso, e non hai bisogno di “mezzucci da 4 soldi” (che siano voluti o agiti inconsciamente) per guadagnarti stima, collaborazione, fiducia di altre persone e raggiungere i tuoi obiettivi.
Menti piccole, azioni piccole, menti grandi, azioni grandi!
E’ evidente che se una persona adotta comportamenti poco collaborativi con chiunque, ha dei limiti. Magari legati a motivazioni ragionevoli, magari no, sta di fatto che li ha.
Non farli diventare tuoi, puoi scegliere di fare la differenza in positivo!
L’inferno sono gli altri, per parafrasare J.P. Sartre, non vuole significare che la causa del nostro inferno sono gli altri davvero, ma che è il nostro modo di vivere gli altri che diventa un inferno, se permettiamo a persone “negative” di assumere troppo potere sulle nostre vite.
Non è facile neanche per me vederla così e agire di conseguenza, ma ognuno può scegliere che parte vuole avere nel mondo: abbassarsi, o elevarsi al di sopra delle fragilità (o meschinità) altrui.
Continuo a sognare un mondo fatto di persone che scelgano la seconda strada!
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Federica Crudeli
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FARE CARRIERA = VALERE? LIBERA NOS A MALOS!
Ciao Bentornato a Lavorare col Sorriso!
Oggi ti parlo di fare carriera e di una prigione mentale comunemente diffusa, e fonte di grandi mal di pancia, per chi lavora in una azienda: quella di sentirsi nullità/falliti qualora le aspettative di diventare manager/capo/quadro/dirigente fossero disattese. Voglio liberarti da questo male con una riflessione coraggiosa. Seguimi!
Questo articolo nasce dall’ osservazione di molte persone che vivono male e con grande senso di sconfitta il fatto di non aver fatto carriera o averla fatta parzialmente rispetto ad obiettivi più ambiziosi.
Attenzione: ho usato volutamente la parola FARE carriera, ossia il manager/capo/quadro/dirigente ma non sono sicura che sia scontato coglierne la sottile differenza.
Tu sei. Punto. Poi il tuo essere si manifesta nel mondo attraverso tanti ruoli: impiegato (a qualsiasi livello), madre/padre, moglie/marito, partner, sorella/fratello, amico/amica e così via.
Ha mai pensato alla questione in questi termini? Se no, è bene che cominci a farlo.
La convinzione diffusa che fare carriera in automatico significhi godere di un riconoscimento di valore che è appannaggio esclusivo di chi ha conseguito un qualche titolo durante la sua vita lavorativa e di sentirsi in automatico persona “da poco” in caso contrario è una grande stupidata.
L’equazione presente nella mente di molte persone è appunto fare carriera = valere/avere la certificazione “sono in gamba”. Le implicazioni negative di questa convinzione spesso sono di non poco conto.
Intanto allora ti lancio subito una provocazione: se la tua mente è abituata a pensare così, il tuo istinto e il tuo cuore, cosa ti dicono?
Quale sarebbe un modello di uomo/donna in carriera ideale?
Sposo il punti di vista di Marco Montemagno : un “vero leader” è una persona animata da passione per il suo lavoro, consistenza (ossia persona che produce risultati fattivi e concreti persistenti), che è capace di emozionare e coinvolgere le persone in un “noi”, che è imperfetto come tutti gli umani e non ha bisogno di nasconderlo.
Chi può fare carriera in azienda?
Potenzialmente chiunque.
In concreto una cerchia ristretta di persone.
Per quali motivi alcune persone fanno carriera ed altre no?
I motivi possono essere molteplici. Alcuni possono essere:
a) una persona ha costruito nel tempo i presupposti per fare carriera producendo risultati consistenti e durevoli. A questo proposito ti rimando al mio articolo sulle differenze fra un buon manager e un fuffa manager.
b) una persona ha venduto la sua dignità (tipicamente facendo lo zerbino, il lacchè, lo spione nel riguardo dei potenti di turno, o prostituendosi mentalmente e/o fisicamente) per un lungo periodo ottenendo in cambio la sua promozione, che poco potrebbe avere a che vedere con le sue qualità, capacità e doti manageriali.
c) una persona si è trovata al posto giusto, nel momento giusto, con il capo giusto rispetto alle dinamiche aziendali, ossia ha avuto le circostanze ambientali “a favore”.
Aver avuto le circostanze a favore non necessariamente è sinonimo che quella persona avesse, come sopra, capacità e qualità manageriali. Potrebbe essere si come no.
Cosa voglio dire?
Voglio dire che fare carriera non necessariamente è sintomatico di una persona “che vale”. Potrebbero esistere molti manager che semplicemente, hanno fatto ricorso ad altri mezzi per fare carriera.
Mentre essere persone di valore è sicuramente un plus, un “vantaggio competitivo” per fare carriera, non vale il viceversa.
Fare il manager non è condizione sufficiente per potere asserire con certezza che una persona, automaticamente, possa anche considerarsi di valore, con buone qualità e capacità professionali ed umane che ad altri non sono accessibili o riconosciute.
Ora, se sei una di quelle persone che “vive male” il suo “non avere fatto carriera” o che vive male le carriere altrui, ti invito a domandarti: a che prezzo queste persone hanno fatto carriera? Se sei disposto a pagarlo anche tu, fallo. Altrimenti, perché ti incazzi?
Oppure sei sicuro che gli altri ottengano risultati sempre senza faticare, senza metterci del loro?
Se invece hai esempi positivi di carriera, perché quello che pensi di meritare non lo vai a cercare altrove, se nel tuo contesto attuale non ti viene riconosciuto? Non dirmi “ehhh ma c’è la crisi”.
Fai prima ad ammettere che non hai voglia di alzare il sedere e metterti in discussione. Chi cerca, prima o poi, trova. Te ne parlo anche nel mio articolo Bastardi senza gloria.
Diversamente, perché pensi a te stesso/a in modo così impietoso come se tutto il tuo valore umano possa essere riducibile ad un titolo?
Il lavoro è un mezzo. Per vivere, per realizzarsi.
Ma se tu ti identifichi tutto intero con il tuo lavoro, le possibili o concrete mancate soddisfazioni lavorative andranno ad intaccare tutta la tua identità di persona.
Dimenticandoti che tu hai molti altri mezzi, ed eventualmente anche posti, per viverti come una persona di valore, ed usare le tue risorse e qualità.
Molto spesso noi umani tendiamo a darci un valore in funzione di qualcosa di “esterno” alla nostra persona che ci restituisca una immagine socialmente accettata e riconosciuta come di successo.
Molto spesso rischiamo di pensare che ammirazione, stima, amore da parte di famigliari e amici sia strettamente connessa e ottenibile solo a condizione di “essere qualcuno”.
Non sto tentando di promuovere una società cosparsa di Grandi Lebowsky (personaggio peraltro che mi suscita una enorme simpatia), ma neanche di persone ossessionate dalla carriera al punto da vivere troppo male il mancato raggiungimento di un certo traguardo di carriera sperimentando frustrazione e auto-denigrazione oltre il dovuto.
Questa prigione mentale causa: disagi emotivi, nevrosi, disturbi psicosomatici, squilibri in altri settori della vita, senso perenne di inadeguatezza.
In preda a queste forma malsane di competizione/invidia è possibile assistere nelle aziende alle più alte manifestazioni di bruttura umana e, talvolta, anche di fantozziana maniera.
Puoi leggerti a questo proposito anche il mio articolo “Potere è piacere?”
Quindi, tornando a noi, se fai parte di queste persone ti invito a domandarti: ma questa carriera quanto è importante per te? Cosa significa carriera per te?
Ed è importante per te, o per le persone che ti circondano? Stai cercando da una vita di soddisfare aspettative tue o di altri?
Fare carriera che vantaggi insostituibili ti porterà? Potresti ottenerli in altro modo?
E il fatto che questa carriera non sia come tu la vuoi, che conseguenze ha su di te? Che pensieri fai verso te stesso?
Perché fai dipendere interamente il tuo valore dalla carriera?
Perché tu pensi di poter esser “qualcuno” solo in funzione di una qualifica che qualcuno può scegliere come no (e per mille motivi indipendenti da te) di non riconoscerti?
Tutte le persone in carriera che conosci sono esempi di doti morali, qualità manageriali, capacità del tutto esclusive e non replicabili?
E se ti paragoni ad altri, a che scopo lo fai? In che modo un risultato eventualmente ottenuto da un’altra persona, può condizionare la stima che hai di te stesso?
E soprattutto, quando ti paragoni ai successi di altri, lo fai considerando questi altri nella loro interezza, o solo relativamente ad alcuni aspetti?
Sei incline a paragonare sempre i lati negativi della tua persona o situazione lavorativa con quelli positivi degli altri?
Non pensi che sia un modo parziale di guardare le cose? Perché allora non paragonarti agli altri comparando sia i lati positivi che quelli negativi di te e della tua situazione lavorativa, rispetto a quelli positivi e negativi degli altri?
Spero che questa riflessione ti sia servita a fare un po’ di chiarezza dentro te stesso e magari a liberarti di qualche fardello mentale inutile.
Qualora poi tu voglia esercitarti a guardare in modo diverso altre tipologie di pensiero che avvelenano la mente ti consiglio di leggere i miei articoli Pensieri negativi sul lavoro: liberati dal loro veleno Parte I – Parte II e Parte III.
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Federica Crudeli
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COLLEGHI DIFFICILI E SOPRUSI IN UFFICIO: LI GESTISCI O LI SUBISCI?
Ciao e Bentornato a Lavorare col Sorriso!
Oggi ti parlo di colleghi difficili che compiono angherie e prepotenze in ufficio e ti guido in una riflessione per capire come “salvarsi” dai loro soprusi.
Prendo spunto da un commento che ho ricevuto da una lettrice (che ringrazio) per affrontare il tema delle relazioni spinose con colleghi difficili a vantaggio di tutti coloro che in questo momento hanno un sentire simile a quello della persona che gentilmente sta dando a me e tutti coloro che leggono, l’opportunità di guardare alle cose in modo diverso.
La lettrice scrive “vorrei lasciare il lavoro perché la moglie del mio titolare , mi rovina l’ esistenza, ho il terrore di questa persona , sono disperata perché mi sento una fallita e sottomessa da una persona che non ha neanche 1 centesimo delle mie competenze ….usa toni altezzosi e minacciosi e io me la faccio sotto”.
E’ bene fare una riflessione, indipendentemente dalla posizione in azienda dei colleghi difficili uomo/donna che agiscono un comportamento simile ed indipendentemente da chi sia il soggetto uomo/donna che “subisce”.
La farò in un modo singolare, ossia analizzando le parole usate da questa persona, partendo con una considerazione che è: le parole sono solo la punta di un iceberg di ciò che noi viviamo più nel profondo.
Le parole che usiamo per comunicare in superficie dicono molto di noi, e di come viviamo le situazioni, e di quanto a volte ognuno di noi scelga di essere vittima di qualcuno, senza nemmeno accorgersene.
Tu dirai: e chi è che sceglie di essere vittima? Deve essere un matto! Ebbene si, in realtà in certe situazioni siamo noi a scegliere di essere vittima, del tutto in buona fede.
Seguimi e capirai di cosa parlo.
“La persona X mi rovina l’esistenza”: cominciamo con il riesumare il concetto di responsabilità di cui ti ho parlato molte volte, ossia l’abilità di risposta ai contesti che è in nostro potere agire.
Qualsiasi cosa facciamo, la scegliamo, compreso quella di farci rovinare l’esistenza.
Non sto dicendo che la persona X sia “santa”, sto dicendo che il potere di decidere quanta importanza è giusto attribuire ad una persona str***a è nostro.
Solo noi possiamo decidere se una persona è importante al punto di meritare i nostri struggimenti, i nostri pensieri, le nostre energie mentali che poco potranno a cambiare il/la st***o/a di turno.
Non sto dicendo che sia facile farsi scivolare da dosso le nefandezze degli altri. Sto però dicendo che fino a quando noi non riconosciamo il pezzo di responsabilità che abbiamo nel contribuire a rinforzare queste dinamiche malsane, mai ne usciremo fuori.
Ci sono persone che si nutrono (e qui potremo fare un trattato di psichiatria :)) degli abusi mentali sugli altri. Ci godono.
E guarda caso queste persone hanno presa proprio su una particolare categoria di persone: quelle che si fanno “braccare” in questa dinamiche e restano remissivi subendo in silenzio.
Se il/la st***o/a di turno capisse di non avere alcun potere, smetterebbe molto probabilmente di fare quello che fa, rivolgendosi a qualcun altro.
“Ho il terrore di questa persona”: la parola “terrore” è carica di emotività, ed evoca a me, e credo anche a chi sta leggendo, qualcosa di cupo e terribile.
Vivere nel terrore come se fossimo in guerra e dovessimo morire da un momento all’altro o come se fossimo di fronte alle minacce di un animale feroce o di una persona armata che ci vuole uccidere, significa creare una condizione di stress per il corpo, che a cascata per difesa produce sostanze chimiche, fra cui la noradrenalina, che “inquinano” tutti nostri tessuti.
Il nostro corpo di fatti è concepito per attivare dei meccanismi di difesa utili in caso di pericolo reale, ma sono gli stessi che si attivano anche nei casi in cui il pericolo sia solo una nostra percezione mentale, a causa di “stressor” di minore entità.
In questo caso “lo stressor” sarebbere il comportamento vessatorio del collega difficile in questione.
Il problema è che se noi non ci abituiamo a distinguere e gestire le fonti di stress in base al livello di entità, ci intossichiamo di continuo l’organismo.
Ecco perché lo stress ha effetti cosi devastanti su di noi. Perché lo attiviamo a sproposito!
La domanda da porti in questo caso è: possibile che un collega difficile abbia non solo il potere di rovinarmi l’esistenza ma di farmi vivere uno stato di terrore del tutto avulso dalla realtà?
Cioè, in che modo offese/minacce/soprusi verbali generano in te stati emotivi così sproporzionati da attivarti meccanismi chimico/fisici adatti a contesti di reale pericolo di sopravvivenza?
Quali pensieri scatenano queste emozioni? Rischi davvero la vita? Se si, mi auguro tu faccia una denuncia.
Se no, perché non imparare a sentire, accettare e gestire questa carica di emotività in modo meno dannoso per te stesso? Come? Pensando, ogni volta che ti sale il terrore, che in realtà non c’è nessuno di fronte a te che tenti di ucciderti realmente.
“Sono disperata perché mi sento una fallita”: essere disperati significa non avere più speranze.
In che cosa? Sul lavoro? In tutti gli aspetti della vita? Tutti tutti?
Cioè il fatto che un solo aspetto della vita sia negativo genera una disperazione nera che contagia tutta la vita? Al punto di sentirsi falliti?
Che relazione esiste fra un collega difficile e il nostro considerarci dei falliti?
Non potrebbe essere che noi siamo solo persone, con pregi e difetti sicuramente, che hanno poco a che fare con il/la str***a di turno?
Il fallimento non esiste. E’ solo nella nostra testa. Esistono gli sbagli. Esistono gli errori. Normalmente compiuti in una specifica circostanza e in un dato momento.
In che modo errori e sbagli, del tutto umani, possono diventare la causa di un intero fallimento? Ha senso?
E la parola “sottomessa”? Dove la mettiamo?
Cioè il collega difficile ci sottomette nel senso che ci sale fisicamente sulla testa o che ci costringe ad inginocchiarci? Oppure è un senso di sottomissione che esiste solo nella nostra testa perché noi, fra tanti modi di sentire, scegliamo di sentirci sottomessi?
Ad esempio, scegliere di essere incazzati neri di fronte ai soprusi altrui non sarebbe un modo di sentire più costruttivo e atto a definire dei confini che non vogliamo siano sorpassati da nessuno?
La domanda in questi casi è: la collera, quel sano “sbottare” di rabbia fulminea ed istantanea che serve a difendere se stessi, i propri confini e la propria dignità, perché non scatta? Dove è stata sepolta? Per quale motivo?
Per la vergogna? Perché qualcuno ci ha insegnato che arrabbiarsi non è socialmente accettato?
Faccio presente che in alcuni casi, la rabbia è l’unico modo per affermare i proprio diritti. E che l’aggressività, tanto demonizzata nella nostra civiltà e soprattutto negli uffici, deriva dal latino “ad – gredire = andare verso” ed è una componente del tutto sana nella vita di chiunque se espressa nei contesti giusti, come in questo caso.
Quello che mi colpisce delle parole di questa persona è la percezione di un senso di inferiorità che inconsciamente autorizza l’altro soggetto ad approfittarsene.
Che ci piaccia o meno, ognuno di noi è trattato così come sceglie di farsi trattare.
Lo so che qualcuno dei lettori stenta a crederci, ma è così.
Qualcuno ti denigra/offende/schernisce/ violenta psicologicamente?
Ecco se fino a oggi non lo hai fatto, prova a rispondere, e non con la sottomissione, con assertività.
Non serve necessariamente urlare, o venire alle mani. Basta anche usare un tono di voce fermo, uno sguardo fermo, e delle parole ben precise che possano significare qualcosa di simile a “non permetterti mai più di trattarmi così, e la prossima volta che hai qualcosa da dirmi gradirei tu usassi modi più rispettosi ed educati”.
Se hai delle resistenze o paure a comportarti così, è bene che tu investa de tempo a capire il perché.
Perché ti viene più facile subire che rispondere con assertività?
Dove e quando hai imparato a fare così? Cosa ti spinge a farlo ancora? Cosa accadrebbe se tu smettessi?
Il senso di sottomissione lo senti solo in uno specifico rapporto o come un atteggiamento che in generale ti appartiene nella vita con chiunque?
E se esistono rapporti in cui invece reagisci in modo sano e tale da difendere i tuoi confini e la tua dignità, cosa c’è di diverso nelle due situazioni? Cosa puoi “portare” da una situazione all’altra per ridefinire un nuovo equilibrio nel rapporto malsano?
Per esperienza personale, posso dire che anche a me è accaduto di avere a che fare con persone simili e che se quelle persone vengono messe al loro posto, normalmente, vanno a cercare altre vittime.
Cosa aspetti quindi a tirare fuori le unghie e pretendere rispetto per la tua dignità di persona?
Riassumendo, la realtà sottostante alle parole iniziali è più probabilmente la seguente: “vorrei lasciare il lavoro perché mi lascio rovinare la vita dalla la moglie del mio titolare , scelgo di provare terrore verso questa persona, scelgo di essere disperata perché scelgo di sentirmi una fallita e sottomessa nei riguardi di una persona che non ha neanche 1 centesimo delle mie competenze ….usa toni altezzosi e minacciosi e io me la faccio sotto”.
Mi auguro che la riflessione sulle singole parole che ho fatto e su quanto tali parole celano, possa essere un pungolo per trasformare questa frase in qualcosa di simile a quanto segue:
“ho deciso di smette di dare tanta importanza alla moglie del mio titolare , perché il mio essere, il mio valore, la mia competenza valgono a prescindere dai soprusi che questa donna tenta di attuare nei miei riguardi. Io non ho alcuna paura di questa donna perché è umana come me, con pregi e difetti come me, e non ho alcun motivo di temerla al punto di lasciare che le mie giornate siano inquinate da lei. Imparo ad affermare i miei diritti e la mia dignità, e la prossima volta che userà toni altezzosi e minacciosi le farò capire con un bel discorso che né lei, né nessun altro, possono permettersi di trattarmi come uno zerbino.”
Se non credi che un bel vaff*****o espresso con toni fermi ed educati possano sortire l’effetto di allontanare questo soggetto negativo, prima di tirare i remi in barca, fallo! Poi mi saprai ridire l’effetto ottenuto.
Ho motivi e precedenti sufficienti per dire che funziona.
Non sto dicendo che i colleghi difficili cambiano. Ma se cambi tu il tuo modo di rapportarti a loro, intanto il loro effetto su di te diminuirà moltissimo, in secondo luogo è altamente probabile che costoro rivolgano le loro intenzioni negative altrove.
Se poi tutti quanti prendessimo il coraggio di imporci con una sana aggressività verso questi soggetti, il mondo ne sarebbe meno pieno, perché non avrebbero più appigli a cui aggrapparsi.
Inoltre è utile osservare in questi casi se il collega difficile usa gli stessi modi solo con noi o con tutti. Perché se con altri non lo fa, è interessante osservare ed imparare da altre dinamiche relazionali.
Da ultimo, i sentimenti riportati di terrore, disperazione, fallimento, sottomissione, sono indicativi di una persona che ritorce contro se stessa, auto-demolendosi senza accorgersene, tutta l’aggressività che non riesce a manifestare fuori in modo sano. Come se fosse colpevole di qualcosa.
Una persona non è tanto tenuta a portarci rispetto perché siamo bravi e competenti, quanto perchè siamo esseri umani con pieno diritto di esistere a prescindere da cosa sappiamo fare e a prescindere dal fatto che qualcuno là fuori ce lo riconosca o meno, padri, madri e partner compresi.
Ti ho già parlato in un mio precedente articolo di un’ altra particolare categoria di colleghi difficili: i melliflui o voltafaccia e ti rimando a leggere questo articoli qualora tu abbia a che fare anche con questa tipologia di persone cliccando a questo link : melliflui Parte I .
Un sentito abbraccio di incoraggiamento a chi prende il coraggio in mano e sceglie di liberarsi una volta per tutte da queste dinamiche malsane!
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Federica Crudeli

PENSIERI NEGATIVI SUL LAVORO: LIBERATI DAL LORO VELENO – Parte III
Ciao Bentornato a Lavorare col Sorriso!
Oggi continuo a parlarti di come liberarti da altri 3 tipi di pensieri negativi velenosi, dopo averne trattati altri 6 nei miei 2 articoli precedenti articolI: la tendenza a drammatizzare le situazioni, a prevedere solo disastri, a personalizzare qualsiasi fatto (Pensieri negativi sul lavoro: liberati dal loro veleno– parte I) e la tendenza a confondere le emozioni con la ragione, a generalizzare gli eventi negativi, e la “tolleranza zero” (Pensieri negativi sul lavoro: liberati dal loro veleno– parte II).
Se non lo hai ancora letto, cosa sono i pensieri negativi velenosi? Sono quei pensieri che nascono automaticamente al di fuori del tuo controllo, a fonte di stimoli esterni, generano sentimenti ed emozioni negative, e sono del tutto inutili e disfunzionali rispetto all’obiettivo che ti prefiggi.
Come la “gramigna”, pianta normalmente associata ad un effetto invadente e fastidioso, questi pensieri occupano la tua mente sottraendoti una enorme quantità di energie psichiche, senza che tu riesca ad opporti, proprio come un veleno paralizzante.
Vediamo quali altri tipi di gramigne esistono e come potertene liberare.
7 – La gramigna della paranoia
Accade a tutti noi di “proiettare” sugli altri quelle che sono le nostre paure e i nostri più grandi timori, attribuendo a colleghi e capi pensieri negativi rispetto a quello che diciamo e/o facciamo.
Ci sentiamo arrabbiati o offesi? Tendiamo a vedere questo tipo di comportamento negli altri verso di noi.
Abbiamo il terrore di essere stati sgarbati? O poco accurati? Ecco subito a immaginare che il capo e collega, nel dirci una cosa stiano pensando “ma quanto è sgarbato/ ma che lavoro fatto male”.
Quante volte ti accade di immaginarti brutte opinioni, pensieri che gli altri possono fare verso di te? Sei così convinto di poter leggere la mente altrui? E se la leggi, quando lo fai, leggi sempre pensieri negativi nei tuoi confronti?
Oppure ogni tanto leggi anche cose buone per te?
A cosa ti serve pensare che altri pensino male di te a tutti i costi?
8 –La gramigna etichettatrice
Viviamo in un modo intriso di giudizio: qualsiasi cosa accada, tendiamo a volerla etichettare come buona/cattiva, bella/brutta, bianca/nera, perdendo di vista “i fatti”.
Il giudizio, o pre-giudizio che abbiamo soprattutto rispetto alle persone, quando si parla di lavoro, può condurre molto spesso a “deformare” i fatti in base ai preconcetti che abbiamo e a influenzare il modo con cui si ascoltano gli altri.
Quanto spesso invece ti limiti ad osservare quello che accade, senza necessariamente attribuirgli una qualche connotazione per forza totalmente o positiva o negativa? Quante volte qualifichi con aggettivi fatti, parole, persone invece che limitarti a descriverli?
9 –La gramigna della ricerca di conferma
Normalmente tendiamo tutti quanti a cercare fatti che confermino le nostre convinzioni. Questo modo di fare esclude a priori dal campo dell’esperienza tutta una serie di altri fatti, invece, che se osservati meglio smentirebbero le nostre convinzioni.
Sei convinto che il tuo collega sia scorretto? Ecco che, alla prima cosa che fa, vai a cercare le prove della sua scorrettezza. Ma magari osservando il fatto in sè, scevro dal giudizio, ti accorgi che quello stesso fatto potrebbe non essere carico dell’accezione negativa che tu gli associ.
Su cosa normalmente poni l’attenzione? E nel farlo, cosa stai evitando di prendere in considerazione? Per quale motivo lo fai? E in che modo il motivo per cui lo fai, condiziona quello che vedi?
Questi 9 atteggiamenti nell’uso del pensiero, (uniti quindi ai 6 degli articoli precedenti) diffusi fra noi esseri umani, in taluni casi, soprattutto se adottati molto frequentemente, proprio perché sono tutti pensieri negativi, non fanno altro che innescare meccanismi di difesa spesso del tutto inutili, e che contribuiscono ad aumentare il livello di stress, con ripercussioni anche sul corpo, che secerne sostanze chimiche nocive, indebolendo l’organismo.
Per rompere questi schemi di pensiero disfunzionali hai da: identificare le situazioni in cui “reagisci” così somministrandoti negatività, riflettere sul perché e quando lo fai, capire come lo fai, fermarti a ragionare ogni volta che ti trovi in queste circostanze ampliando il tuo punto di vista con le domande che ti ho suggerito sopra e ripetere ripetere ripetere fino ad educarti in modo differente e più salutare per te stesso.
Piano piano rimpiazzerai i pensieri negativi automatici e “reattivi” , con la capacità di essere “proattivo” cioè di scegliere una risposta più funzionale agli stimoli esterni, senza cadere nella negatività e nel pessimismo cosmico.
Costa impegno farlo? Si. Hai da scegliere fra un meccanismo appreso e gratuito che ti innesca stress e negatività senza fatica alcuna, ad uno più impegnativo che però è fonte di benessere, che una volta conquistato, resterà con te.
Leggere nella “testa altrui” solo cose negative, etichettare qualsiasi cosa, o cercare conferme dei nostri pensieri, drammatizzare le situazioni, prevedere solo disastri, personalizzare qualsiasi fatto, confondere i fatti con le emozioni, generalizzare gli eventi spiacevoli, e considerare insopportabili le situazioni sono tutti filtri cognitivi che quando applicati automaticamente e diffusamente, limitano l’accesso alle tue risorse personali, limitando anche il tipo di “risposte” che sarai in grado di utilizzare a tuo vantaggio nei differenti contesti, magari allontanandoti dall’obiettivo che ti eri prefissato.
Al prossimo articolo fra 2 settimane!
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PENSIERI NEGATIVI SUL LAVORO: LIBERATI DAL LORO VELENO – Parte II
Ciao Bentornato a Lavorare col Sorriso!
Oggi continuo a parlarti di come liberarti da altri 3 tipi di pensieri negativi velenosi, dopo averne trattati altri 3 nel mio precedente articolo: la tendenza a drammatizzare le situazioni, a prevedere solo disastri, a personalizzare qualsiasi fatto.
Se non lo hai ancora letto, cosa sono i pensieri negativi velenosi?
Sono quei pensieri che nascono automaticamente al di fuori del tuo controllo, a fonte di stimoli esterni, generano sentimenti ed emozioni negative, e sono del tutto inutili e disfunzionali rispetto all’obiettivo che ti prefiggi.
Come la “gramigna”, pianta normalmente associata ad un effetto invadente e fastidioso, questi pensieri occupano la tua mente sottraendoti una enorme quantità di energie psichiche, senza che tu riesca ad opporti, proprio come un veleno paralizzante.
Vediamo quali altri tipi di gramigne (pensieri negativi e disfunzionali) esistono e come potertene liberare.
4 – La gramigna della confusione emozione/ragione
Un collega/capo ti parla, tu ti senti offeso/umiliato/deriso/criticato e confondi la tua emozione con i fatti arrivando a pensare che l’altro ti ha offeso/umiliato/deriso/criticato.
Ossia il capo ti dice “questo lavoro va rifatto, così non mi va bene” e tu associ a queste parole, in automatico, una offesa diretta alla tua persona, perché quel modo di dire ti fa sentire offeso, perdendo di vista che il fatto realmente accaduto è che ti è stato fatto notare che hai da rifare una determinata cosa, senza che questo implichi necessariamente la volontà della controparte di ferirti/offenderti/umiliarti.
A questo proposito una cosa è dire “hai fatto male un lavoro” altra cosa è sentirsi dire “tu sei un incapace”.
Nel primo caso la critica è rivolta ad una cosa, nel secondo in effetti, toccando l’identità di un altro essere umano, è una offesa! Se però ogni critica che viene mossa alle tue attività tu la trasformi dentro di te in un “sono un incapace/tu sei incapace” stai traducendo emotivamente un fatto in modo improprio.
Ti accade spesso di provare sensazioni/emozioni negative? Cosa le scatena? Adotti questo filtro cognitivo che ti porta a fare confusione fra la tua reazione emotiva e il fatto che accade?
5 –La gramigna generalizzatrice
Hai la tendenza a generalizzare eventi specifici e negativi e magari particolarizzare quelli positivi?
Ad esempio rispondi male ad un collega una volta e quindi ti etichetti come “ scorbutico” perdendo di vista quante volte magari in altre circostanze hai saputo mantenere la calma?
Oppure hai una vocina interiore che dice a te stesso “ecco..sei il solito ritardatario/ poco preciso/ collerico/rabbioso/ impaziente perché alcune volte arrivi non puntuale/ti arrabbi/perdi la pazienza?
Ossia tendi a connotarti negativamente e perennemente generalizzando uno specifico comportamento?
E magari quando ricevi un apprezzamento, la consideri “solo una fortuna”?
Quando generalizzi? In quali circostanze? Positive o negative? Cosa ci guadagni?
Come cambierebbe il tuo umore se in automatico, invece che condannarti con qualche appellativo infausto, avessi la prontezza di “particolarizzare”, anziché generalizzare, gli eventi negativi?
6 –la gramigna della tolleranza zero
Quando ti convinci che alcune situazioni sono insopportabili, intollerabili, inaccettabili, stai somministrando negatività alla tua mente (e di conseguenza anche al tuo corpo) dato che ti predisponi ad affrontarle con un livello di fiducia via via più basso.
Tendiamo un po’ tutti ad etichettare come “insopportabili” situazioni che in realtà sono “poco sopportabili” o “difficili da sopportare” caricandole anche di una “esasperazione emotiva” fuori luogo.
Il senso di “impotenza” di fronte ad un evento “insopportabile” infatti porta a focalizzarsi proprio sul disagio, più che sulla nostra capacità di saperlo gestire.
Inoltre questo atteggiamento mentale porta nel tempo ad abbassare la soglia di quello che riteniamo sopportabile o tollerabile.
Quante delle situazioni che vivi sono davvero insopportabili, inaccettabili, intollerabili?
E quando si sono verificate, sono state davvero così insopportabili? Come hai fatto a sopportarle? E come puoi utilizzare lo stesso modo in altre circostanze?
Per rompere questi schemi di pensiero disfunzionali hai da: identificare le situazioni in cui “reagisci” così somministrandoti negatività, riflettere sul perché e quando lo fai, capire come lo fai, fermarti a ragionare ogni volta che ti trovi in queste circostanze ampliando il tuo punto di vista con le domande che ti ho suggerito sopra e ripetere ripetere ripetere fino ad educarti in modo differente e più salutare per te stesso.
Piano piano rimpiazzerai i pensieri negativi automatici e “reattivi” , con la capacità di essere “proattivo” cioè di scegliere una risposta più funzionale agli stimoli esterni, senza cadere nella negatività e nel pessimismo cosmico.
Costa impegno farlo? Si. Hai da scegliere fra un meccanismo appreso e gratuito che ti innesca stress e negatività senza fatica alcuna, ad uno più impegnativo che però è fonte di benessere, che una volta conquistato, resterà con te.
Drammatizzare le situazioni, prevedere solo disastri, personalizzare qualsiasi fatto, confondere i fatti con le emozioni, generalizzare gli eventi spiacevoli, e considerare insopportabili le situazioni sono tutti filtri cognitivi che quando applicati automaticamente, limitano l’accesso alle tue risorse personali, limitando anche il tipo di “risposte” che sarai in grado di utilizzare a tuo vantaggio nei differenti contesti, magari allontanandoti dall’obiettivo che ti eri prefissato.
Nel prossimo articolo, fra 2 settimane, tratterò delle ultime tre tipologie di pensieri negativi legate all’uso dei nostri filtri cognitivi in modo parziale! Seguimi quindi!
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VAMPIRI EMOTIVI IN UFFICIO: RICONOSCERLI E DIFENDERSI!
Ciao e Bentornato a Lavorare col Sorriso!
Oggi ti parlo di come riconoscere e difenderti senza sensi di colpa da una categoria di colleghi pericolosi per la tua salute mentale: i vampiri emotivi!
[Tweet ““Chi è causa del suo mal, pianga se stesso”– cit. popolare“].Che caratteristiche hanno i vampiri emotivi?
Possono manifestarsi in molti modi diversi, secondo differenti stili caratteriali, ma li accomuna il fatto che dopo esserti rapportato con loro e relativo set di lamenti, ti senti “sfatto” e privato delle tue energie, pieno di negatività, mentre loro fanno nulla per modificare la situazione di cui si lamentano, e sono normalmente vestiti da vittime predestinate di qualche accanimento che la vita ha avuto verso di loro.
Il meccanismo diabolico che attivano i colleghi vampiri emotivi è il seguente:
- il vampiro emotivo, che normalmente è l’artefice primo (o in derivata seconda per l’incapacità di reagire ad eventi negativi della vita) di tutte le sue sfighe, si lamenta di continuo in modo ossessivo e ripetitivo per qualsivoglia motivo lavorativo e non;
- “finge” (spesso inconsciamente) di volere aiuto da parte tua, sfogandosi, chiedendoti pareri e consigli e tu in buona fede gli fornisci aiuto/supporto/ascolto;
- lui frustra o demolisce in modo implacabile qualsiasi tuo tentativo di aiuto/supporto o di ampliargli il suo punto di vista, vanificandolo o facendo comunque di testa sua e instillandoti pure il senso di colpa in modo sottile e velato per una tua presunta incapacità di essergli di aiuto;
- Unitamente a ciò ti lusinga, a momenti, facendoti credere che lui a te ci tiene e si interessa della tua vita. In realtà lo fa solo in vista di un tornaconto prelibato: risucchiarti l’anima.
Spesso (non sempre) sono persone molto cognitive e intelligenti, e usano la dialettica per “intortarti” in modo manipolatorio.
Le riposte tipiche da parte di chi è affetto da vampirismo ai tuoi consigli/aiuti/punti di vista sono ad esempio:
“ eh no, ma nel mio caso è diverso, tu non mi capisci …”
“no tu la fai facile, quello che vale per te non può valere per tutti …”
“io non ce la farò mai …”
“il mondo è pieno di gente insensibile ed egoista, nessuno mi capisce”
“va beh, ho capito, per me non puoi fare nulla, lasciamo perdere …”
Vorrai mica togliergli il primato di vittima mondiale del lamento parassita? Almeno quello in cui è campione, lasciaglielo fare indisturbato!!!
Spesso sono persone che appaiono e si “vendono” come vittime, senza rendersi conto che la causa principale delle situazioni di cui si lamentano solo loro stesse, e che a loro volta diventano carnefici dei malcapitati di turno che in buona fede pensano anche di poterli aiutare.
Per capirci, un vampiro emotivo è uno che se hai avuto un lutto in famiglia, non perderà l’occasione di stare zitto lamentandosi di quanto sia difficile la sua vita per i 40 minuti di macchina che fa ogni mattina.
Per lui i suoi 40 minuti di macchina sono enormemente più importanti del tuo lutto.
Per lui tu hai tutte le fortune del mondo, tutte le capacità del mondo, tutto ti piove in testa “a gratis”.
Per lui invece no, lui che ha contro tutto l’Olimpo e gli Dei di qualsiasi religione inventata… si “ritrova” inspiegabilmente deluso da capi, colleghi, amici, dal lavoro in generale, dai parenti lontani e stretti, insomma è l’incompreso per antonomasia.
Nel mio precedente articolo ti ho parlato dei pensieri negativi, di quanto siano veleni e di come, in alcuni casi, siano sintomo di un disagio ben più profondo di un semplice momento di difficoltà o di un atteggiamento mentale negativo ma modificabile: il vampiro emotivo è immutabile. E’ attaccato alla sua negatività come una cozza sempiterna su uno scoglio.
Come riconoscere facilmente un collega vampiro emotivo prima che ti succhi tutte le energie che hai in circolazione?
Ascolta le parole che usa per lamentarsi e osserva nel tempo di cosa si lamenta: ogni pretesto è buono per lamentarsi di qualunque cosa o di qualunque aspetto di una singola cosa? Si lamenta del tempo (se è bello perché fa troppo caldo, se è brutto perché è brutto), dei colleghi che sono tutti antipatici e ce l’hanno con lui/lei, degli amici che sono deludenti, dell’unghia del mignolo scheggiata e altre amenità di ogni genere …
Tende a vedere sempre e solo il lato negativo di tutto ciò che lo circonda?
Demolisce qualsiasi punto di vista diverso che gli offri, nel tentativo altruista di ampliare la sua visione “ristretta” delle cose e fargli apprezzare gli aspetti positivi di cui potrebbe godere in una data situazione?
Argomenta con pretesti o scuse i motivi per i quali tutto quanto gli dici è inutile, per restare di fatto fermo nel suo status quo e giustificare il suo “immobilismo”?
Quando parla di se si auto-demolisce come calimero, cercando di suscitare compassione? (” ma io non sarò mai come te … , ma io non sono capace … , ma io non riesco/posso … etc etc etc?)
Cosa fa il vampiro a fronte delle cose di cui si lamenta e che è in suo potere cambiare? Se sono cose da lui gestibili, si adopera per cambiarle o lascia tutto andare alla deriva?
Chi sono i suoi amici? Ne ha? Da quanto tempo? Se li conosci cosa dicono di lui?
Che percezione ne hanno i colleghi che lo conoscono da più tempo?
Che rapporti ha con i famigliari?
Noti che si è fatto “terra bruciata” attorno?
Chi sono le vittime preferite dei vampiri emotivi?
Normalmente i vampiri emotivi si “attaccano” alla categoria di persone che più facilmente prestano il fianco a questi soggetti: chi è empatico,sensibile, altruista e volenteroso di supportare il prossimo (sanamente equilibrato) in difficoltà.
Dove sta la fregatura per te?
La fregatura sta nel fatto che queste persone non possono essere aiutate proprio da nessuno (eccetto che da uno psicoterapeuta di solito), perché loro per prime nè riconoscono di essere le artifici del lago di miseria in cui vivono, nè hanno alcuna intenzione di cambiare.
Aspettano solo, in modo molto infantile, che qualcuno si faccia interamente carico a livello affettivo/energetico/cognitivo/pratico della loro situazione, in un rapporto egoisticamente totalizzante, senza fare alcuno sforzo e ricorrendo al ricatto emotivo.
Ti fanno girare a vuoto come un criceto su una ruota. Tu spendi energie, parole, affetto, tempo. Loro restano immobili in attesa di non si sa quale miracolo.
I motivi alla base di comportamenti simili possono essere numerosi, sono spesso radicati nell’infanzia, e hanno la loro ragione di esistere.
Qui non entriamo nel merito delle possibili cause di un comportamento simile, quanto nella possibilità di riconoscere prima possibile queste persone e stabilire dei confini non superabili, o averci a che fare il minimo indispensabile, onde evitare che un rapporto di “vicinanza forzata” si trasformi in una specie di incubo a cielo aperto.
Perché è indispensabile evitare i vampiri emotivi in ufficio (e anche fuori)?
Perché ci passi molte ore e le tue energie mentali è giusto siano rivolte a spendere parole o fare cose “produttive” per te stesso e la tua organizzazione, non per tentare di “salvare” l’insalvabile.
Qualunque cosa dirai o farai, apparentemente sortirà un qualche effetto positivo, spesso del tutto effimero e temporaneo: il vampiro cambierà atteggiamento, o farà cose diverse, o prometterà di farle, per tornare poi esattamente come prima nel giro di poco.
Più spesso le energie spese per queste persone saranno del tutto buttate via. Evitale, stanne alla larga, difenditi, non dargli corda, non spendere parole per argomentare punti di visti diversi per aiutarli.
Dargli corda poi, oltre a “sfinire” te, non è utile neanche per loro, che, fin quando troveranno vittime a cui succhiare energie, si sentiranno legittimati o sollevati dal prendersi le responsabilità che ognuno di noi dovrebbe avere riguardo a se stesso, a quello che ha fatto, a quello che ha seminato e a quello che sceglie di fare della sua vita.
Spesso di fatti, queste persone hanno bisogno di un aiuto/sostegno/supporto psicologico ben diverso dalla semplice vicinanza amicale. Ma se loro per primi non intendono nè riconoscere a ste stessi, nè uscire dalla spirale malsana in cui sono “incastrati” adoperandosi fattivamente e concretamente chiedendo aiuto a qualcuno che lo faccia per mestiere, tanto meno avrai qualche potere tu, se non del tutto palliativo come potrebbe essere una borsa per il ghiaccio per una persona che si è frantumata un ginocchio.
Ognuno di noi è quello che sceglie di essere.
Una persona che vive un malessere profondo e che vuole davvero cambiare qualcosa e da sola non riesce, ammette di avere un problema e si fa aiutare da qualcuno competente, non pretende che altri sacrifichino energie e tempo per qualcosa di più grande di loro e fuori dalla loro portata.
E che è fuori dalla portata altrui è certo e risiede nel fatto che, se negli anni, fossero bastati l’ascolto e i consigli degli altri, amici/colleghi/parenti/famigliari oggi, un vampiro emotivo, non sarebbe più tale.
I vampiri emotivi sono pericolosi per te sia in ufficio che nella vita fuori.
Queste persone sono molto brave a “comprare” il prossimo a suon di lusinghe, premure, manifestazioni di interesse che accarezzano l’ego.
Sono come il suono delle sirene Scilla e Cariddi. Se poi magari tu stai a tua volta attraversando un momento di debolezza/difficoltà e hai bisogno di sentirti importante, ancora peggio…restare invischiati in queste “dinamiche malate” è un momento, e ritrovarsi portatori di croci di altri è un lampo.
Vero è che una via di uscita esiste sempre… ma per la propria salvaguardia sarebbe meglio non doverla mai cercare, perdendo tempo e sprecando energie inutilmente.
Sia chiaro: non sto nè giudicando, nè criticando i vampiri emotivi per quello che sono, nè mettendo in dubbio che la vita possa portare ad adottare atteggiamenti simili. Anzi, se per caso ti riconoscessi in questa descrizione, ti consiglio vivamente di accettarti e chiedere aiuto a qualcuno che possa farlo secondo un protocollo medico.
Certo, il percorso per uscire dal vampirismo comporta impegno, tempo e la voglia di mettersi in discussione. Che ti piaccia o no, nè hai messa tanta di energia e voglia per costruire una percezione del mondo attorno a te ostile nel tempo.
Altrettanto tempo ed energia li puoi investire per costruire per te stesso qualcosa di migliore!
Se invece ti senti “invischiato” in una dinamica simile, prendi le giuste precauzioni e tutele per te stesso!
Se hai un innato istinto a fare la “croce rossa” (più tipico delle donne) e a sentirti in colpa, ti invito a pensare a quello che sei, a quello che fai, alla fatica/impegno/energia che metti nella tua vita per essere una persona migliore. Neanche a te la vita regala nulla. E come lo fai tu, può farlo anche il vampiro emotivo!
Fra 2 settimane, nel prossimo articolo, proseguirò la riflessione su altre tipologie di pensieri negativi (o forse sarebbe meglio dire atteggiamenti mentali) che avvelenano la mente.
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Federica Crudeli
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PENSIERI NEGATIVI SUL LAVORO: LIBERATI DAL LORO VELENO – Parte I
Ciao Bentornato a Lavorare col Sorriso!
Oggi ti parlo di come liberarti da 3 tipi di pensieri negativi velenosi. Intanto, cosa sono i pensieri negativi velenosi? Sono quei pensieri che nascono automaticamente al di fuori del tuo controllo, a fronte di stimoli esterni, generano sentimenti ed emozioni negative, e sono del tutto inutili e disfunzionali rispetto all’obiettivo che ti prefiggi.
Come la “gramigna”, pianta normalmente associata ad un effetto invadente e fastidioso, questi pensieri occupano la tua mente sottraendoti una enorme quantità di energie psichiche, senza che tu riesca ad opporti, proprio come un veleno paralizzante.
Vediamo quali tipi di gramigne esistono e come potertene liberare.
1 – La gramigna “napoletana”
Senza che me ne vogliano i lettori napoletani, uso questa dicitura per intendere la tendenza che abbiamo a drammatizzare un evento parzialmente negativo trasformandolo in una tragedia con tutte le possibili e infauste conseguenze del caso, come se stessimo vivendo la famosa “tragedia napoletana” (rifacendomi alla teatralità nota dei nostri concittadini che fra l’altro amo).
Ad esempio, il tuo capo con tono rabbioso e risentito ti manifesta la sua scontentezza per un lavoro che hai fatto?
Tu in automatico in 3 nanosecondi ti stai già immaginando in mezzo agli scatoloni di scartoffie da portare via per il tuo licenziamento. In sostanza ingoi ciuffi di gramigna di pensieri negativi e ansia da solo, senza neanche rendertene conto.
Ti riconosci questa tendenza? Intanto comincia a notare quali situazioni innescano questi pensieri negativi: critiche di colleghi? Imprevisti? Litigi? Discussioni? Si assomigliano queste circostanze che attivano i pensieri negativi in automatico? Rilevi elementi comuni?
Perché lo fai? A che fine? Quali altre conseguenze potresti trarre da quell’evento parzialmente negativo, oltre che quelle peggiori? Manifesti poi anche all’esterno questi pensieri, incupendo il tuo umore o il tuo atteggiamento verso gli altri?
2 –La gramigna veggente
Un’altra auto-flagellazione di pensieri negativi, questa volta slegata da un evento esterno parzialmente negativo a scatenarli, è quella di farsi film mentali sul futuro, e sempre negativi come se in te si fossero reincarnati tutti i registi più catastrofici e lugubri del cinema.
Questa tendenza a farti dei film futuri negativi, riguarda una qualche area specifica della tua vita? O qualche azione specifica? Ti sei mai fermato a ragionare su quanti dei tanti film negativi che ti sei fatto, realmente sono stati tali e quanti no? E pensare così in negativo a cosa ti è servito? A dirti “ se mi preparo al peggio almeno poi non rimarrò male?”. Oppure, ancora, fai pensieri negativi sul futuro perché “estrapoli” da eventi negativi del passato la convinzione che sarà così anche nel domani?
Lo sai che questo atteggiamento mentale è causa delle cosiddette “profezie auto-avveranti”? Siccome la nostra mente va cercando nel mondo conferma di ciò che crede, tu stesso potresti, con queste convinzioni negative, creare i presupposti affinchè poi le cose vadano davvero male per poi poterti dire “beh, avevo ragione!”
3 –La gramigna con l’ego a mongolfiera
Questa tipologia di pensieri negativi è molta diffusa nelle aziende, ed è la tendenza a personalizzare qualsiasi fatto come se tutto l’universo cospirasse a tuo danno.
Un collega che ti sta particolarmente simpatico risponde male? Subito a pensare “oddio cosa gli avrò fatto” senza pensare che magari è semplicemente incazzato per motivi suoi.
Oppure se qualcuno fa una critica al tuo lavoro ti senti intaccato nella tua identità, perdendo di vista che hai ricevuto una critica da un collega (dei tanti) ad una attività (e non alla tua persona) 1 volta su 220 giorni lavorativi.
Per evitare di cadere in questa trappola, occorre che identifichi, di volta in volta, tutti gli elementi del mondo circostante che potrebbero essere cause altrettanto valide di quanto vedi e attribuisci a te stesso. E, se proprio proprio vuoi sentirti al centro del mondo sempre, almeno scegli di esserlo come causa/effetto di qualcosa di positivo.
Riepilogando ti ho parlato per questa volta di 3 gramigne, o atteggiamenti mentali, che causano pensieri negativi:la tendenza a esagerare e generalizzare eventi negativi, la tendenza a farsi film negativi sul futuro a prescindere da inneschi esterni, la tendenza a personalizzare gli eventi esterni come se l’unica causa possibile fossi tu.
Per rompere questi schemi di pensiero disfunzionali hai da: identificare le situazioni in cui “reagisci” così, riflettere sul perché lo fai, fermarti a ragionare ogni volta che ti trovi in queste circostanze ampliando il tuo punto di vista con le domande che ti ho suggerito sopra ed educarti a farlo tutte le volte.
Rimpiazzerai progressivamente i pensieri negativi automatici e “reattivi” , con la capacità di essere “proattivo” cioè di scegliere una riposta più funzionale agli stimoli esterni, senza cadere nella negatività e nel pessimismo cosmico.
Costa impegno farlo, prima di sostituire l’automatismo negativo con quello positivo? Si.
Hai da scegliere fra un meccanismo appreso e gratuito che ti innesca stress, negatività e ansia senza fatica alcuna, ad uno più impegnativo che però è fonte di benessere.
(A proposito di ansia, ecco un mio precedente articolo che parla di come gestirla!)
Ti parla una persona che ha sperimentato sulla sua pelle, o meglio, nella sua testa, questo approccio. Progressivamente ho messo a tacere quel coacervo di pensieri negativi che un tempo mi nascevano spontanei su una serie di inneschi esterni. Vivo molto meglio, con la testa più libera e leggera.
Sottolineo però che, qualora notassi che questi pensieri negativi siano per te diffusi a TUTTE le aree e situazioni della vita, tu abbia la convinzione che le cose stavano così in passato e staranno così per SEMPRE, e ritieni di essere TU LA CAUSA di tutti i mali del mondo con un enorme senso di impotenza, ti consiglio di rivolgerti ad uno psicoterapeuta: questi sono campanelli di allarme di un disagio che esula dalle “nevrosi” tipiche del nostro vivere e sono piuttosto sintomatici di problemi caratteriali ben più radicati e profondi.
Nei prossimi articoli, fra 2 settimane, continuerò a parlarti di altre tipologie di pensieri negativi! Segui quindi anche la Parte II e la Parte III!
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4 DIFFERENZE FRA UOMINI E DONNE AL LAVORO!
Ciao e Bentornato a Lavorare col Sorriso!
Oggi ti parlo di almeno 4 differenze fra uomini e donne al lavoro che rendono la comunicazione fra i due sessi più difficoltosa.
Non è una novità che da secoli ci sia un tentativo reciproco di comprendersi, in ufficio come fuori, con scarsi risultati, a volte.
Gli scarsi risultati sono legati principalmente al fatto che le aspettative di un uomo sono diverse da quelle di una donna, e che entrambi filtrino il mondo con occhi molto diversi.
I significati attribuiti nel mondo maschile divergono da quelli attribuiti dal genere femminile, a parità di situazione, e questo genera infiniti fraintendimenti, delusioni e molto stress.
Nei miei precedenti articoli “Differenze fra uomini e donne: capirle ti aiuta” e “L’empatia è uomo o donna?” ho già iniziato a parlarti di quali siano alcune differenze fra uomini e donne sul lavoro, e quindi oggi continuo sempre ispirandomi liberamente al libro di Jhon Gray “How to get what you want in the workplace” (link affiliazione).
1 – Differenze fra uomini e donne al lavoro – potere vs. relazioni
Gli uomini danno importanza al potere, alla competenza, all’efficienza e ai risultati, elementi dai quali dipende la definizione del loro senso di sé stessi, incrementato attraverso il superamento di sfide e il raggiungimento di obiettivi.
La paura più recondita (e spesso inconscia) di un uomo è quella di non essere all’altezza e non sentirsi necessari.
Gli uomini sono più interessati a cose ed oggetti, meno a sentimenti e persone.
Le donne considerano importanti i rapporti interpersonali, l’armonia nelle relazioni e nella comunicazione.
Per tradizione culturale radicata nei secoli, le donne traggono il loro senso di sè in base a quanto riescono a sentirsi utili e contribuire al benessere altrui.
Atteggiamento questo, peraltro, che sconfina molto spesso nella famosa “sindrome della Croce rossa” con cui ancora oggi, molte donne, finiscono per annullare/avvilire/disintegrare completamente se stesse in campo lavorativo pur di compiacere il capo/collega di turno e in campo sentimentale per “salvare” l’uomo difficile di turno.
Non a caso, la paura recondita (spesso inconscia) delle donne è quella di non sentirsi apprezzate, riconosciute e di sentirsi rifiutate, anche quando sono donne affermatissime e di successo.
2 – Differenze fra uomini e donne al lavoro – autonomia vs. sostegno
Gli uomini incrementano il senso della loro efficacia nel fare le cose da soli e in autonomia senza chiedere consiglio.
Chiedere consiglio è inteso come segno di debolezza.
Le donne invece tendono a fornire consigli non richiesti per fornire supporto, che dagli uomini sono interpretati come “tu non mi ritieni capace di fare queste cose da solo”.
3 – Differenze fra uomini e donne al lavoro – soluzione vs. comprensione
Di fronte ai problemi, gli uomini cercano soluzioni rivolgendosi a persone che stimano, solo quando non riescono a trovarle da soli.
Partendo da questo presupposto, quando una donna esprime un suo problema, l’uomo tende a leggerlo (misurandosi con il suo metro) come una richiesta di aiuto/soluzione mentre per la donna la finalità è “sfogare le sue emozioni”, ottenere ascolto, comprensione e sostegno emotivo.
4 – Differenze fra uomini e donne al lavoro – status quo vs. miglioramento continuo
Le donne sono convinte che una cosa che funziona possa funzionare ancora meglio e si prodigano per questo.
Gli uomini al contrario, se una cosa funzione preferiscono non interessarsi a come migliorarla ulteriormente difendendo lo status quo.
Istintivamente preferiscono non interferire su ciò che già funziona.
Siamo nel 2017. Sono passati millenni da quando uomini e donne hanno iniziato a popolare la terra, ma , malgrado ciò, credo che facendo mente locale alle nostre cerchie di persone vicine, che si tratti di colleghi/e, amici/amiche, o partners, buona parte di queste differenze esista ancora e sia ancora molto radicata, sebbene ovviamente poi nello specifico, sia uomini che donne possano rispecchiare queste caratteristiche in modo più o meno spinto.
L’evoluzione culturale che è avvenuta negli anni, l’incremento del livello di istruzione, ancora non sono stati sufficienti ad abbattere queste barriere e a favorire uno scambio più fluido fra uomini e donne, sul lavoro come in altri settori della vita.
Da un lato la difficoltà maschile nello sviluppare un miglior rapporto con le emozioni, (lasciando vivere la loro parte più “femminile” che comunque esiste) senza per questo considerarsi deboli, uscendo dallo stereotipo dell’ uomo che non deve chiedere mai.
Dall’ altro la difficoltà femminile di concepire la propria realizzazione in se stesse più che nel bisogno di attribuirsi un valore in funzione di una qualche buona relazione che sia di lavoro, o affettiva, nella quale sentirsi indispensabile (lasciando vivere la loro parte più maschile).
Come incontrarsi a metà strada dunque? Con un pò di empatia …
Per le donne:
a) è bene evitare di dare consigli a capi e colleghi quando non sono espressamente richiesti, soprattutto davanti a più persone, in quanto questo atteggiamento mina il senso della loro auto-efficacia;
b) è bene lasciare che un capo/collega si “ritiri in se stesso” per trovare una soluzione ai suoi problemi, senza sentirsi per questo svilite e non ascoltate. Un uomo si ritira in se stesso per alleviare il suo stress, non perché rifiuta l’aiuto o il supporto di una donna.
c) è bene imparare a riconoscere ed esprimere un bisogno, senza entrare nel biasimo e nella critica: una cosa è dire al proprio capo/collega “tu non mi ascolti mai!” altra cosa e di ben diversa efficacia è dire “ho bisogno di parlarti/esporti una idea, quando mi dedichi un po’ del tuo tempo?”
Per gli uomini:
a) è bene capire l’importanza che ha la bontà delle relazioni in ufficio per una donna;
b) è bene saperla ascoltare quando una donna si lamenta di una situazione senza andare dritti al fornire una soluzione: la soluzione spesso una donna la sa ottenere da sola. Quello che le preme è sentirsi supportata emotivamente;
c) è bene capire che manifestare le proprie difficoltà nell’affrontare un problema non è vissuto da una donna come sintomo di debolezza o di “non essere all’altezza” ma anzi, di vicinanza emotiva;
d) è bene smetterla di interpretare i consigli non richiesti di una donna o le sue proposte di miglioramento nel fare alcune cose, come una forma di “svilimento” delle proprie capacità, ma come volontà di fornire supporto, comprensione e miglioramento continuo.
Riepilogando, oggi ti ho parlato di 4 differenze fra uomini e donne al lavoro che sono superabili da entrambe le parti sviluppando maggiore empatia nella comprensione delle reciproche differenze.
Se rifletti sui tuoi rapporti lavorativi quotidiani, rivedi qualcuna di queste dinamiche?
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