
SHADOWING E REVISIONE AZIENDALE. COSA HANNO IN COMUNE?
Shadowing e revisione aziendale: quale nesso? Informazioni su questa tipologia di lavoro che potrebbe tornarti utile.
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IL CORPO, MENTE? L’IMPORTANZA DI ASCOLTARE IL CORPO
Ciao e Bentornata/o a Lavorare col Sorriso!
Oggi ti parlo dell’importanza di imparare ad ascoltare il corpo per preservare il benessere, evitare di adeguarsi ad un livello di sopportazione dello stress troppo elevato per noi stessi ed evitare di considerare il corpo come una appendice scontata di noi stessi.
L’ansia di fare brutta figura, di commettere errori, di perdere il lavoro, di essere inadeguati o di incorrere nel giudizio negativo di altri sono alcuni degli esempi di pensieri che a tutti capita di fare.
L’eccesso di intellettualizzazione tipico del nostro mondo occidentale, ci porta spesso ad utilizzare questa qualità straordinaria, che è la capacità di pensare, in modo disfunzionale per il nostro benessere …quando in realtà, sarebbe bene poterla utilizzare a nostro vantaggio.
Perché usare spesso e solo la mente, senza mai ascoltare il corpo? Oppure rispettandolo poco?
Misuriamo il nostro dispendio energetico in termini di metabolismo e calorie accumulate e bruciate: siamo dunque produttori e consumatori di energia , anche se per questa attività per fortuna ancora non paghiamo tasse o “bollette”. Non diciamolo troppo forte, sia mai che qualcuno arrivi a tassare anche il metabolismo …
La vita mediamente sedentaria di un lavoratore in azienda, costretto spesso: a stare davanti al PC per buona parte della giornata, a mangiare spesso fuori per trasferte lavorative, a saltare pranzi o cene per rispettare scadenze, orari, riunioni incide sul nostro sistema energetico e sul metabolismo.
Non ultimo trascurare il corpo può anche avere riverberi sulla struttura muscolare che nel tempo a causa della sedentaretà prevalente perde di flessibilità, mobilità e resistenza originando magari cervicali, lombalgie croniche (solo per citarne alcune) che sono fastidi tipici di chi sta molto spesso seduto.
L’affollamento di attività da svolgere, accompagnato da eccessi di ansie ed insicurezze può rendere molto stanchi, spossati, come se ci avessero messo dentro ad una lavatrice, eppure, normalmente nè spostiamo carichi pesanti, nè facciamo lavori di fatica fisica così pesanti da giustificare questo senso di stanchezza.
Ma quante delle cose che ti sono richieste giornalmente le fai realmente utilizzando quella parte di pensiero utile e funzionale al da farsi, e quanto invece con una produzione eccessiva di pensieri collaterali a quello che realmente sarebbero richiesti dal “qui e ora” di quello che stai facendo?
E quanto tempo spendi invece ad ascoltare il corpo facendo un po’ di silenzio mentale?
Scommetto poco, a meno che qualche fastidio non ti costringa a farlo.
Noi SIAMO un corpo. Il corpo non è quella cosa che ci porta a spasso ma quello di cui siamo fatti. Sembra banale ma non lo è.
Quale affermazione ti viene spontanea se pensi al tuo corpo? Sono un corpo oppure ho un corpo?
Nella mia esperienza di counselor la maggior parte delle persone usa l’espressione HO UN CORPO. Penso che questo sia molto indicativo di quanto ci identifichiamo solo con la mente.
Comincia a farci caso ripensando magari ai disturbi fisici di salute che hai avuto nel tempo.
In alcuni casi li hai avuti in corrispondenza di periodi di stress, di nervoso sul lavoro, o magari dopo qualche litigata con capi/colleghi/famigliari etc?
Vista l’importanza che ha ascoltare il corpo, nei miei percorsi, quando la situazione lo richiede, utilizzo degli esercizi di bioenergetica per favorire l’eliminazione di rigidità fisiche.
Cos’è la Bioenergetica?
Vivere nel piacere e godersi la vita: questo quello che rappresenta per me la Bioenergetica che racchiude di fatti in sé le parole vita (bio) ed energia.
Oggi applicata nel trattamento dello stress e delle rigidità muscolari anche al di fuori dell’ambito strettamente psico-terapeutico, la Bioenergetica nasce come una psicoterapie corporea.
È stata messa a punto da Alexander Lowen, un avvocato e sportivo, con la passione per l’atletica leggera prima, divenuto poi anche psicoterapeuta e psichiatra statunitense, nato nel 1910 e deceduto nel 2008 a ben 98 anni.
L’età in cui ha lasciato questa terra credo sia una buona indicazione di come l’aver vissuto secondo l’approccio da lui stesso diffuso abbia funzionato in concreto.
La Bioenergetica parte dall’assunto che corpo e mente sono strettamente connessi, al punto che quanto accade nell’uno si riverbera sull’altro e viceversa. Un individuo sano è “fluido” nei suoi movimenti, nel senso che la sua energia fluisce in modo armonioso nel corpo senza “bloccarsi” in rigidità muscolari “cronicizzate”.
Specifici esercizi, praticabili anche da soli a casa, focalizzati sul respiro, sul “grounding” ossia la capacità di “essere radicati a terra” o assertivi, e su piccoli movimenti graduali e lenti, ti aiutano a migliorare la consapevolezza, padronanza ed espressività di te stesso, ad allentare tensioni muscolari e stress, riscoprendo delle spontanee e liberatorie “vibrazioni” nel corpo che sono indicatori di un corpo effettivamente “vivo”.
Non a caso, la morte viene normalmente indicata con il termine “rigor mortis” che sta a richiamare il concetto di “rigidità definitiva”.
Prendersi cura di se stessi significa evitare, da vivi, di restare intrappolati in eccessi di rigidità che impediscono ai normali processi energetici quali respiro e metabolismo, di fluire spontaneamente e liberamente.
Lo stress è la causa di uno di questi eccessi di rigidità.
Sottolineo che questa condizione di benessere vibrante (anche a livello muscolare), non coincide necessariamente con quella di uno sportivo. Alexander Lowen, che per primo ha gareggiato in competizioni di atletica leggera, ad un certo punto della sua vita, approfonditi gli studi sulle dinamiche caratteriali e somatiche, realizzò quanto poco conoscesse il suo corpo in termini di governo della propria capacità espressiva e conoscenza di sè aprendo di conseguenza anche una finestra sulle strette connessioni esistenti fra il corpo e i vissuti cognitivi ed emotivi.
Lo sport è un’ottimo modo per ricercare benessere e sfogare lo stress. Ma da questo ad imparare ad ascoltare il corpo e usarlo non per una competizione sportiva ma per prendere coscienza dei propri vissuti cognitivi – emotivi – e corporei nel QUI e ORA, volgendoli a nostro vantaggio ci passa una enorme differenza.
Oserei dire la stessa differenza che corre fra la cura di un sintomo e l’individuazione delle reali cause che determinano uno stato di mal-essere che tende a ripresentarsi se non anche a cronicizzarsi.
Comincia a dedicare un pò di tempo coltivando del sano ozio come suggerisco in questo articolo (link). Oziare è gratis!
Se invece senti di avere qualche disturbo cronicizzato o qualche sintomatologia ricorrente considera di fruire del mio percorso “Lavora col Sorriso”: possiamo esplorare il significato simbolico dei vissuti corporei e scoprire come uscire da situazioni di empasse.
Se ancora non lo hai fatto ti invito ad iscriverti alla Newsletter, oltre a ricevere una comoda notifica nella tua mail quando pubblicherò nuovi contenuti, riceverai un trattamento speciale per tutte le future iniziative che svilupperò e potrai scaricare la mia Guida Gratuita Fai il lavoro giusto per te che contiene agevolazioni sul valore dei miei percorsi .
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Grazie dell’attenzione
Federica Crudeli

FARE CARRIERA = VALERE? LIBERA NOS A MALOS!
Non fare carriera è sinonimo di valere nulla? Liberati da questa prigione mentale che diminuisce la tua autostima e impara a valorizzarti.
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COLLEGHI DIFFICILI E SOPRUSI IN UFFICIO: LI GESTISCI O LI SUBISCI?
Ciao e Bentornato a Lavorare col Sorriso!
Oggi ti parlo di colleghi difficili che compiono angherie e prepotenze in ufficio e ti guido in una riflessione per capire come “salvarsi” dai loro soprusi.
Prendo spunto da un commento che ho ricevuto da una lettrice (che ringrazio) per affrontare il tema delle relazioni spinose con colleghi difficili a vantaggio di tutti coloro che in questo momento hanno un sentire simile a quello della persona che gentilmente sta dando a me e tutti coloro che leggono, l’opportunità di guardare alle cose in modo diverso.
La lettrice scrive “vorrei lasciare il lavoro perché la moglie del mio titolare , mi rovina l’ esistenza, ho il terrore di questa persona , sono disperata perché mi sento una fallita e sottomessa da una persona che non ha neanche 1 centesimo delle mie competenze ….usa toni altezzosi e minacciosi e io me la faccio sotto”.
E’ bene fare una riflessione, indipendentemente dalla posizione in azienda dei colleghi difficili uomo/donna che agiscono un comportamento simile ed indipendentemente da chi sia il soggetto uomo/donna che “subisce”.
La farò in un modo singolare, ossia analizzando le parole usate da questa persona, partendo con una considerazione che è: le parole sono solo la punta di un iceberg di ciò che noi viviamo più nel profondo.
Le parole che usiamo per comunicare in superficie dicono molto di noi, e di come viviamo le situazioni, e di quanto a volte ognuno di noi scelga di essere vittima di qualcuno, senza nemmeno accorgersene.
Tu dirai: e chi è che sceglie di essere vittima? Deve essere un matto! Ebbene si, in realtà in certe situazioni siamo noi a scegliere di essere vittima, del tutto in buona fede.
Seguimi e capirai di cosa parlo.
“La persona X mi rovina l’esistenza”: cominciamo con il riesumare il concetto di responsabilità di cui ti ho parlato molte volte, ossia l’abilità di risposta ai contesti che è in nostro potere agire.
Qualsiasi cosa facciamo, la scegliamo, compreso quella di farci rovinare l’esistenza.
Non sto dicendo che la persona X sia “santa”, sto dicendo che il potere di decidere quanta importanza è giusto attribuire ad una persona str***a è nostro.
Solo noi possiamo decidere se una persona è importante al punto di meritare i nostri struggimenti, i nostri pensieri, le nostre energie mentali che poco potranno a cambiare il/la st***o/a di turno.
Non sto dicendo che sia facile farsi scivolare da dosso le nefandezze degli altri. Sto però dicendo che fino a quando noi non riconosciamo il pezzo di responsabilità che abbiamo nel contribuire a rinforzare queste dinamiche malsane, mai ne usciremo fuori.
Ci sono persone che si nutrono (e qui potremo fare un trattato di psichiatria :)) degli abusi mentali sugli altri. Ci godono.
E guarda caso queste persone hanno presa proprio su una particolare categoria di persone: quelle che si fanno “braccare” in questa dinamiche e restano remissivi subendo in silenzio.
Se il/la st***o/a di turno capisse di non avere alcun potere, smetterebbe molto probabilmente di fare quello che fa, rivolgendosi a qualcun altro.
“Ho il terrore di questa persona”: la parola “terrore” è carica di emotività, ed evoca a me, e credo anche a chi sta leggendo, qualcosa di cupo e terribile.
Vivere nel terrore come se fossimo in guerra e dovessimo morire da un momento all’altro o come se fossimo di fronte alle minacce di un animale feroce o di una persona armata che ci vuole uccidere, significa creare una condizione di stress per il corpo, che a cascata per difesa produce sostanze chimiche, fra cui la noradrenalina, che “inquinano” tutti nostri tessuti.
Il nostro corpo di fatti è concepito per attivare dei meccanismi di difesa utili in caso di pericolo reale, ma sono gli stessi che si attivano anche nei casi in cui il pericolo sia solo una nostra percezione mentale, a causa di “stressor” di minore entità.
In questo caso “lo stressor” sarebbere il comportamento vessatorio del collega difficile in questione.
Il problema è che se noi non ci abituiamo a distinguere e gestire le fonti di stress in base al livello di entità, ci intossichiamo di continuo l’organismo.
Ecco perché lo stress ha effetti cosi devastanti su di noi. Perché lo attiviamo a sproposito!
La domanda da porti in questo caso è: possibile che un collega difficile abbia non solo il potere di rovinarmi l’esistenza ma di farmi vivere uno stato di terrore del tutto avulso dalla realtà?
Cioè, in che modo offese/minacce/soprusi verbali generano in te stati emotivi così sproporzionati da attivarti meccanismi chimico/fisici adatti a contesti di reale pericolo di sopravvivenza?
Quali pensieri scatenano queste emozioni? Rischi davvero la vita? Se si, mi auguro tu faccia una denuncia.
Se no, perché non imparare a sentire, accettare e gestire questa carica di emotività in modo meno dannoso per te stesso? Come? Pensando, ogni volta che ti sale il terrore, che in realtà non c’è nessuno di fronte a te che tenti di ucciderti realmente.
“Sono disperata perché mi sento una fallita”: essere disperati significa non avere più speranze.
In che cosa? Sul lavoro? In tutti gli aspetti della vita? Tutti tutti?
Cioè il fatto che un solo aspetto della vita sia negativo genera una disperazione nera che contagia tutta la vita? Al punto di sentirsi falliti?
Che relazione esiste fra un collega difficile e il nostro considerarci dei falliti?
Non potrebbe essere che noi siamo solo persone, con pregi e difetti sicuramente, che hanno poco a che fare con il/la str***a di turno?
Il fallimento non esiste. E’ solo nella nostra testa. Esistono gli sbagli. Esistono gli errori. Normalmente compiuti in una specifica circostanza e in un dato momento.
In che modo errori e sbagli, del tutto umani, possono diventare la causa di un intero fallimento? Ha senso?
E la parola “sottomessa”? Dove la mettiamo?
Cioè il collega difficile ci sottomette nel senso che ci sale fisicamente sulla testa o che ci costringe ad inginocchiarci? Oppure è un senso di sottomissione che esiste solo nella nostra testa perché noi, fra tanti modi di sentire, scegliamo di sentirci sottomessi?
Ad esempio, scegliere di essere incazzati neri di fronte ai soprusi altrui non sarebbe un modo di sentire più costruttivo e atto a definire dei confini che non vogliamo siano sorpassati da nessuno?
La domanda in questi casi è: la collera, quel sano “sbottare” di rabbia fulminea ed istantanea che serve a difendere se stessi, i propri confini e la propria dignità, perché non scatta? Dove è stata sepolta? Per quale motivo?
Per la vergogna? Perché qualcuno ci ha insegnato che arrabbiarsi non è socialmente accettato?
Faccio presente che in alcuni casi, la rabbia è l’unico modo per affermare i proprio diritti. E che l’aggressività, tanto demonizzata nella nostra civiltà e soprattutto negli uffici, deriva dal latino “ad – gredire = andare verso” ed è una componente del tutto sana nella vita di chiunque se espressa nei contesti giusti, come in questo caso.
Quello che mi colpisce delle parole di questa persona è la percezione di un senso di inferiorità che inconsciamente autorizza l’altro soggetto ad approfittarsene.
Che ci piaccia o meno, ognuno di noi è trattato così come sceglie di farsi trattare.
Lo so che qualcuno dei lettori stenta a crederci, ma è così.
Qualcuno ti denigra/offende/schernisce/ violenta psicologicamente?
Ecco se fino a oggi non lo hai fatto, prova a rispondere, e non con la sottomissione, con assertività.
Non serve necessariamente urlare, o venire alle mani. Basta anche usare un tono di voce fermo, uno sguardo fermo, e delle parole ben precise che possano significare qualcosa di simile a “non permetterti mai più di trattarmi così, e la prossima volta che hai qualcosa da dirmi gradirei tu usassi modi più rispettosi ed educati”.
Se hai delle resistenze o paure a comportarti così, è bene che tu investa de tempo a capire il perché.
Perché ti viene più facile subire che rispondere con assertività?
Dove e quando hai imparato a fare così? Cosa ti spinge a farlo ancora? Cosa accadrebbe se tu smettessi?
Il senso di sottomissione lo senti solo in uno specifico rapporto o come un atteggiamento che in generale ti appartiene nella vita con chiunque?
E se esistono rapporti in cui invece reagisci in modo sano e tale da difendere i tuoi confini e la tua dignità, cosa c’è di diverso nelle due situazioni? Cosa puoi “portare” da una situazione all’altra per ridefinire un nuovo equilibrio nel rapporto malsano?
Per esperienza personale, posso dire che anche a me è accaduto di avere a che fare con persone simili e che se quelle persone vengono messe al loro posto, normalmente, vanno a cercare altre vittime.
Cosa aspetti quindi a tirare fuori le unghie e pretendere rispetto per la tua dignità di persona?
Riassumendo, la realtà sottostante alle parole iniziali è più probabilmente la seguente: “vorrei lasciare il lavoro perché mi lascio rovinare la vita dalla la moglie del mio titolare , scelgo di provare terrore verso questa persona, scelgo di essere disperata perché scelgo di sentirmi una fallita e sottomessa nei riguardi di una persona che non ha neanche 1 centesimo delle mie competenze ….usa toni altezzosi e minacciosi e io me la faccio sotto”.
Mi auguro che la riflessione sulle singole parole che ho fatto e su quanto tali parole celano, possa essere un pungolo per trasformare questa frase in qualcosa di simile a quanto segue:
“ho deciso di smette di dare tanta importanza alla moglie del mio titolare , perché il mio essere, il mio valore, la mia competenza valgono a prescindere dai soprusi che questa donna tenta di attuare nei miei riguardi. Io non ho alcuna paura di questa donna perché è umana come me, con pregi e difetti come me, e non ho alcun motivo di temerla al punto di lasciare che le mie giornate siano inquinate da lei. Imparo ad affermare i miei diritti e la mia dignità, e la prossima volta che userà toni altezzosi e minacciosi le farò capire con un bel discorso che né lei, né nessun altro, possono permettersi di trattarmi come uno zerbino.”
Se non credi che un bel vaff*****o espresso con toni fermi ed educati possano sortire l’effetto di allontanare questo soggetto negativo, prima di tirare i remi in barca, fallo! Poi mi saprai ridire l’effetto ottenuto.
Ho motivi e precedenti sufficienti per dire che funziona.
Non sto dicendo che i colleghi difficili cambiano. Ma se cambi tu il tuo modo di rapportarti a loro, intanto il loro effetto su di te diminuirà moltissimo, in secondo luogo è altamente probabile che costoro rivolgano le loro intenzioni negative altrove.
Se poi tutti quanti prendessimo il coraggio di imporci con una sana aggressività verso questi soggetti, il mondo ne sarebbe meno pieno, perché non avrebbero più appigli a cui aggrapparsi.
Inoltre è utile osservare in questi casi se il collega difficile usa gli stessi modi solo con noi o con tutti. Perché se con altri non lo fa, è interessante osservare ed imparare da altre dinamiche relazionali.
Da ultimo, i sentimenti riportati di terrore, disperazione, fallimento, sottomissione, sono indicativi di una persona che ritorce contro se stessa, auto-demolendosi senza accorgersene, tutta l’aggressività che non riesce a manifestare fuori in modo sano. Come se fosse colpevole di qualcosa.
Una persona non è tanto tenuta a portarci rispetto perché siamo bravi e competenti, quanto perchè siamo esseri umani con pieno diritto di esistere a prescindere da cosa sappiamo fare e a prescindere dal fatto che qualcuno là fuori ce lo riconosca o meno, padri, madri e partner compresi.
Ti ho già parlato in un mio precedente articolo di un’ altra particolare categoria di colleghi difficili: i melliflui o voltafaccia e ti rimando a leggere questo articoli qualora tu abbia a che fare anche con questa tipologia di persone cliccando a questo link : melliflui Parte I .
Un sentito abbraccio di incoraggiamento a chi prende il coraggio in mano e sceglie di liberarsi una volta per tutte da queste dinamiche malsane!
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Federica Crudeli

CAMBIAMENTI LAVORATIVI: BATTERE L’EFFETTO TRUMP IN 2 MOSSE!
Ciao e Benvenuto a Lavorare col Sorriso!
Cosa è l’effetto Trump in tema di cambiamenti lavorativi? Negli ultimi giorni, a seguito dell’elezione del nuovo Presidente USA credo che tutti abbiamo assistito ad una specie di isteria emotiva collettiva ovunque, specialmente sui social network. Si sono scatenati commenti di ogni sorta e una specie di panico diffuso sui timori di quello che succederà da adesso in poi. Un pò lo stesso panico diffuso visto in occasione della Brexit …sembrava dovesse crollare il mondo, a partire dalle borse! Il cambiamento in ambito lavorativo ha su di te gli stessi effetti? Entri nel panico da effetto TRUMP? L’onda d’urto emotiva è tale da offuscarti la ragione, e buttarti in uno stato di ansia da quello che succederà? Oppure ti entusiasma?
Ecco, tanto per cominciare ad inquadrare come gestisci/affronti gli effetti dei cambiamenti, e quanto l’emotività a volte possa schiacciare la razionalità o oggettività dei fatti … a proposito di Brexit … quali e quanti fatti, ad oggi, supportano i nefasti effetti che avrebbe dovuto avere quella scelta?
Come puoi affrontare il cambiamento lavorativo mantenendo il tuo benessere, evitando di cadere intrappolato in stati d’animo di apprensione/panico/paura o emotività invadente al punto da limitare la tua capacità di gestire e affrontare al meglio il contesto? In due modi:
1 – mantenendo il focus sulla tua “direzione”
2 – imparando innanzi tutto a capire come sei solito reagire ai cambiamenti!
Come? Seguimi!
[Tweet “Quella che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla.” – cit. Lao Tzu “]
1 – Mantieni il focus sulla tua direzione
Sebbene gli avvenimenti esterni alla tua persona, quali l’elezione del Presidente USA o altri avvenimenti importanti, possano avere una enorme risonanza, e un contagio emotivo forte fra persone e colleghi, (lo stesso che si ha normalmente nelle aziende quando subentra un nuovo Amministratore Delegato o Direttore o Top Manager), di fatto, continua a contare solo una cosa per te: la tua meta/direzione, i tuoi obiettivi di lungo termine.
Il fatto che cambino cose “là fuori” implica che tu abbia magari da prendere scelte, provvedimenti, decidere se “subire” una situazione che ha impatti, se li ha, su di te poco gradevoli (reagire), oppure “rispondere”, ossia definire un piano di azione e agire un comportamento che ti avvicini a quello che desideri.
Per identificare quale sia la direzione, il tuo senso di scopo, l’elemento irremovibile che ti sostiene anche se tutto quello che ti sta attorno cambia, mettendoti quindi in condizione di affrontare qualsiasi stato d’animo, ti rimando a leggere il mio articolo “Un giorno lo farò: il tempo ti è nemico?” – Parte I e II.
2 – Osserva come sei solito reagire/rispondere ai cambiamenti
Ferma restando l’importanza del punto 1) poichè nell’arco della vita lavorativa ti troverai ad affrontare molti cambiamenti, alcuni che ti riguarderanno in prima persona, alcuni che riguarderanno quello che si muove attorno a te, è importante non solo avere presente la tua meta/direzione, ma anche come sei solito comportarti.
Tu potresti trovarti nella condizione di dovere/volere cambiare mansione, attività, funzione aziendale (cambiamento orizzontale) oppure ruolo diventando ad esempio capo (cambiamento verticale).
Allo stesso tempo magari a parità come no di ruolo, mansione, funzione, potresti vedere cambiamenti nelle persone con cui sei solito rapportarti a seguito di cambiamenti organizzativi che ti impattano indirettamente.
Tu cambi tutti i giorni. Ci hai mai pensato? E tutto quello che hai intorno muta di continuo.
Probabilmente se ti facessi le analisi del sangue, la conta dei globuli bianchi e rossi oggi sarebbe diversa da quella di ieri e di domani.
Se è vero che tu sei un corpo, non sei mai uguale a te stesso. Cambi di continuo.
Eppure… eppure quando hai da affrontare una situazione ex novo, dimmi se non è vero, ti parte il loop del “e ora, cosa succederà?” con tutta una serie di pre-occupazioni a cascata sul cambiamento in atto.
Certo, non tutti i cambiamenti destano enormi preoccupazioni. Ma a volte si. Soprattutto se si tratta di cambiamenti che tu consideri importanti. In qualche modo, un certo equilibrio fino a quel momento mantenuto “intatto” si “rompe” per fare spazio a qualcosa di nuovo ed incerto.
Tu come ti rapporti normalmente con il cambiamento? Come lo affronti?
Come lo hai affrontato fino ad oggi?
Ti spaventa? Passi ore a rimuginare e a valutare tutte le possibili conseguenze del caso? A immaginarti tutte le catastrofi che potrebbero succederti, a cosa potrebbe andare storto?
Oppure hai fiducia che tutto andrà per il meglio e ci pensi, si, ma non più di tanto? Anzi, non ci pensi affatto?
Da molti studi che sono stati condotti nelle organizzazioni, di fondo, si registra, in media, una resistenza al cambiamento. Questa resistenza è ricondotta, sostanzialmente, non tanto al cambiamento in se, quanto alle conseguenze del cambiamento. In effetti, anche io personalmente ho fatto i conti con questa dinamica.
Uso una metafora che mi piace molto: supponiamo tu debba cambiare gli abiti che indossi, ipotizziamo il tuo completo o taielleur da ufficio, per vestirti per andare in palestra, o al cinema con gli amici, o ad una partita.
Come fai?
Ti spogli, ti togli degli abiti e te ne metti degli altri. Semplice.
Il cambiamento, di qualsiasi genere, presuppone lo spogliarsi di qualcosa, per indossare qualcosa d’altro.
Annota le risposte a queste domande:
Quanto è facile/difficile per te spogliarti delle tue abitudini, modi di fare, rapporti consolidati, per fare spazio a qualcosa di nuovo, e diverso?
Dove incontri più resistenza, nello spogliarti o nel rivestirti con abiti diversi?
Quanto tempo ci metti a lasciar andare “il vecchio” e quanto ne metti di norma ad adattarti a nuovi contesti?
A chi rivolgi la tua attenzione: a quello che ti aspetta di diverso in un contesto nuovo, o alle energie che tu dovrai mettere in campo per affrontarlo?
In qualche modo il cambiamento ha comunque a che fare anche con la consapevolezza sè.
La consapevolezza di sè, mettitelo in testa, è il punto di partenza da cui nascono tutte le dinamiche lavorative, personali, di vita in generale.
Perché quando qualcosa cambia, tu cambi, con tutto te stesso e tutto il tuo corredo di entusiasmo, paure, gioie, rabbie, frustrazioni, tristezze, allegria, entusiasmo e di tutto un po’.
Questa prima riflessione ti suggerisce qualcosa?
Quanti cambiamenti lavorativi o di vita hai affrontato fino ad oggi nella tua vita?
Quali sono state le principali difficoltà che hai incontrato?
Che pensieri avevi? Quali emozioni hai provato?
In quale punto del processo? Prima, durante, o dopo?
Fai mente locale al tuo modo usuale di affrontare i cambiamenti.
Rileggi quanto hai scritto.
In questo modo potrai identificare paradossalmente le abitudini con cui affronti un cambiamento che scopri essere ripetitive ma deleterie per te e sostituirle con atteggiamenti più utili.
A questo proposito, per identificare e modificare comportamenti che valuti poco efficaci nella gestione del cambiamento, può tornarti utile il mio articolo “Ripeti sempre gli stessi errori? Come trasformarli in successo!”
Insomma, questo effetto TRUMP applicato ai cambiamenti lavorativi, adesso pensi di poterlo gestire meglio?
Hai voglia di farmi sapere qualcosa in proposito commentando nel box a fondo pagina?
Cosa vorresti che fosse trattato nei miei articoli sul tema del cambiamento lavorativo, rispetto alle dinamiche di cui ti ho parlato sopra?
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A presto e grazie!
Federica Crudeli
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CAPO DIFFICILE: IL “VOLTAFACCIA”! 2 STRADE POSSIBILI
Ciao e Benvenuto a Lavorare col Sorriso!
E se ad essere mellifluo e voltafaccia, questa volta, fosse il tuo capo difficile e non un collega qualsiasi? Le cose si complicano, vista la “disparità” di “potere” nel rapporto. Esistono altre strade percorribili per neutralizzarlo, oltre a quelle di cui ti ho già parlato?
Si, almeno altre due… scoprile!
[Tweet ““ Per ogni carnefice c’è una vittima pronta a rendersi tale” – cit. “]
Nel precedente articolo “Colleghi difficili: i melliflui. Cosa fare?” ti ho parlato infatti di una particolare categoria di colleghi difficili, in particolare i melliflui voltafaccia. Ti ho profilato una loro caratterizzazione, e aiutato a capire come li vivi (o subisci), come puoi vederli con occhi diversi e gestirli di conseguenza.
Se il soggetto in questione è il tuo capo, esistono almeno altre 2 strade percorribili e hanno a che vedere con una prospettiva di lungo termine, soprattutto se ti senti in una situazione lavorativa che, pur con tutto il tuo impegno per gestirla, ti sta stretta stretta.
Allarga l’orizzonte temporale!
Il presupposto di partenza che accompagna tutto quello che segue è che il capo difficile mellifluo o voltafaccia sia percepito come tale non solo da te ma anche da tutti i colleghi con cui lavori.
Ti chiedo questa volta di riflettere con un orizzonte temporale un po’ più allargato degli stati d’animo e mentali che in media, il rapportarti con quel capo difficile ti genera: in particolare, quelle negatività che solitamente vivi, da quanto tempo le vivi?
Se da un lato è vero che essere consapevoli di quello che ci accade dentro ci dà uno strumento in più per scegliere più liberamente come rapportarci in modo più vantaggioso per noi stessi, vero è anche che se fino ad oggi, e da molto tempo, non hai mai pensato a qualcosa di simile, è possibile che tu oggi stia sperimentando un generale abbassamento del livello di energia che sta andando ad intaccare anche gli altri aspetti della tua vita.
In fin dei conti lavori minimo 8 ore al giorno, considerando che 8 ne dormi, capisci bene che almeno il 50% del tuo tempo da sveglio è a contatto con un capo difficile che ti genera questi stati d’animo che devi gestire al meglio se non vuoi “soccombere”.
E magari sei più irascibile e nervoso con gli amici e i famigliari, o sei più svogliato, o più apatico, sorridi meno del solito, o comunque ti senti più “spento” e in generale , vivi con un generale senso di insoddisfazione latente perenne e crescente.
In particolare, se pensi a te stesso prima di lavorare in quel contesto lavorativo, noti delle differenze rispetto a come sei adesso nei termini di cui sopra?
Ti ammali spesso? Soffri di disturbi cronici? Da quando sono iniziati i disturbi? Hanno avuto qualche concomitanza con eventi spiacevoli?
Anche qui, ti faccio presente che il corpo manifesta tutto quello che non può essere manifestato altrove. Non lo ascolti? Parla lui per te.
Se ti trovi in questa condizione, o non ti ci trovi ancora ma pensi che le circostanze “ambientali” inevitabilmente ti ci porteranno perché pur con tutto te stesso, proprio non sopporti il contesto, è meglio correre ai ripari prima possibile.
Strada n° 1: parlare con il capo del capo difficile e mellifluo. Attenzione!
Premetto che un capo difficile e mellifluo normalmente, se è percepito come tale non solo da te, ma da più persone, ha “nevrosi” di cui non è cosciente (in realtà in media tutti ne abbiamo, solo che alcune nuocciono più di altre nei contesti lavorativi).
Tu non sei tenuto nè a capirle, nè a subirle, altrimenti lavoreresti in un consultorio ASL.
Sta di fatto che se quella persona sta lì dove è indisturbata da anni, pur rappresentando una fonte di malessere non solo per te ma per tutti, è perché è funzionale a qualcun altro, che è possibile, ipotizzo, incarni lo stesso modello relazionale vittima – carnefice, dove questa volta è proprio il tuo capo difficile tiranno e mellifluo a subire a sua volta la “tirannia” del suo capo.
Che allegriaaaa!!! avrebbe detto Mike Bongiorno.
Nessun capo di un capo realmente centrato e con una psiche equilibrata si circonderebbe di un capo difficile e mellifluo se non perché quel tipo di capo è esattamente quello che lui stesso pretende e cerca: sottomissione..
Persone che hanno un sana considerazione di sè e una “centratura”, non hanno alcuna necessità di innescare dinamiche di questo tipo per gestire i loro rapporti lavorativi.
Qui potrei aprire un capitolo infinito sulla trattazione dei modelli relazionali sadico/masochisti, o carnefice/vittima, ma mi riservo di farlo in futuro come ti ho anticipato nel mio articolo “Manager o Leader, quale tipo sei’” (puoi sbirciare lì per conoscere le caratterizzazioni di comportamenti che approfondirò anche in seguito).
Sappi però che esiste anche il cosiddetto masochismo sociale.
Il problema nasce quando un “masochista sociale” pretende che tutti si adeguino al suo modello (distorto in negativo) di vedere la vita lavorativa: “mi sacrifico io, si devono sacrificare tutti”.
Alla luce di quanto sopra, va da se che ricorrere ai ripari andando a cercare conforto nel capo del capo difficile e mellifluo equivale al suicidio lavorativo.
Potrebbe invece essere che il capo del capo difficile e mellifluo è li da poco, non ha ancora conoscenza del capo mellifluo e deve ancora prendere le misure.
Allora hai speranza, da un lato che se ne accorga lui per primo e prenda provvedimenti, dall’altro che quanto meno potresti avere un alleato a cui rivolgerti per chiedere spostamenti o cambi di attività o fare presente il tuo malcontento.
La strada ultima, se parlare col capo del capo difficile e mellifluo non da risultati o non è possibile, è andare a parlare con la persona a ciò preposta della funzione HR.
In fin dei conti, chiedere di cambiare lavoro dopo un po’ di tempo è sano e funzionale alla tua crescita lavorativa, non necessariamente devi porla come una questione di “non sopportazione” del tuo capo difficile.
Ed è bene che tu lo faccia dopo aver fatto la stessa richiesta al tuo capo difficile e mellifluo e al relativo superiore: e non perché loro ti daranno ascolto se sono caratterizzati come ti ho già descritto, ma solo perché non possano dirti un giorno “ma a noi non l’avevi detto” e perché elevarsi significa fare la differenza.
Bypassarli sarebbe attuare lo stesso comportamento che loro applicano a te. Ma tu, sei meglio di loro.
Strada n° 2 – cambiare lavoro internamente/cercarlo altrove
Al di là del percorrere queste strade, quello che mi preme farti presente ora è il danno che stai facendo a te stesso, subendo questa situazione che vivi come intensamente negativa, senza cercare rimedi, quali chiedere un cambio di lavoro interno,o fosse anche cercare lavoro presso altre aziende se non lo hai già tentato.
Se non lo fai è interessante capire cosa ti frena o cosa ti frena dal cercare altre strade in generale.
Visto che questa convivenza forzata con il capo difficile porterà irrimediabilmente al peggioramento della tua vita e imbruttimento della tua persona, quello su cui ti invito a riflettere è: che cosa ti impedisce di “ribellarti” o di fare qualcosa di diverso da quello che hai fatto sino ad ora, compreso, appunto, cercare lavoro altrove internamente o esternamente, qualora la situazione sia per te insostenibile?
Cosa ti spaventa? Cosa ti frena?
Le possibili ripercussioni?
Guardati attorno: a chi ha osato ribellarsi al capo difficile, se hai degli esempi intorno, che cosa è successo?
Ha risultati così tanto peggiori di chi come te invece “sopporta” il capo difficile e mellifluo? O magari uguali o simili?
Pensaci bene, anche nel lungo termine, se vuoi restare dove sei, cosa è che premia nella tua famiglia professionale in questo momento e con i capi che ci sono?
E quello che tu vedi essere un comportamento premiato per crescere professionalmente, saresti in grado di sopportarlo o attuarlo?
Risponde alle tue aspettative di carriera e monetarie? Sarebbe in sintonia con il tuo ideale di vita e con i tuoi valori? Se no, cosa hai da perdere a tentare altre strade?
Conosci qualcuno che da dove sei tu se ne è andato? Come ha fatto? Sta meglio, sta peggio, lo conosci, gli hai mai chiesto un confronto per capire come ha ottenuto ciò che voleva?
Usare e “modellare” il “come” delle esperienze altrui è sempre un ottimo modo per uscire fuori da situazioni difficili.
Ti spingo al limite: immagina la tua situazione attuale di scontentezza protratta fino alla pensione!
Pensi di poterla sopportare? Se la riposta è no, ti faccio presente che più tempo resti dove sei, più aumenti le probabilità che accada esattamente questo, e che tu possa passare da un ufficio all’altro con poca capacità di decidere delle tue sorti.
E’ quello che vuoi? Benissimo.
Non è quello che vuoi? Fai qualcosa. Ora. Non fra 1,2,3 o 4 anni. Ora. Comincia a pensarci ora e a farlo ora.
Soprattutto nella nostra cultura è diffuso il concetto della sopportazione e del sacrificio, per cui l’idea di sopportare e sacrificarsi diventa quasi un “must” e “fa molto figo”.
Spesso è una cultura diffusa nelle aziende italiane considerare “dei grandi” quelli che lavorano ad oltranza.
Sappiamo bene che nei paesi del Nord Europa non è così, in media. La domanda che sarebbe opportuno porsi invece è: se c’è tutta questa necessità di lavorare oltre ogni limite, non è che serve un rinforzo di organico?
O magari si tratta di disorganizzazione allo stato pure e basta? E se così fosse, ne devi fare le spese per forza tu? Dove sta scritto? Tirartene fuori quali conseguenze potrebbe avere? E’ temporanea o strutturale questa situazione?
Inoltre, una cosa è sacrificarsi e sforzarsi in funzione di un obiettivo che si concretizza o ha alte probabilità di concretizzarsi, altra cosa è sacrificarsi per la patria, senza infamia, senza lode, per la gloria di nessuno e pure digerendo tonnellate di bocconi amari subendo un capo difficile…
Ecco..nel nostro paese questa seconda accezione di sacrificio e sforzo è diventata la normalità, per questo, credo, siamo il paese con la tassazione più alta d’Europa…
Diciamo che sarebbe bene tu ti prefissassi una data limite entro la quale vedere realizzati i tuoi obiettivi di crescita professionale, per cambiare rotta al non verificarsi di certe condizioni. Non lo hai ancora fatto? Comincia.
Ogni giorno deve avere la sua ricompensa.
Se stai pensando che è una affermazione banale, ti domando: ogni giorno quante ricompense ti regali?
Il fatto di sentirci immortali o di pensare che le cose brutte del mondo possano accadere solo agli altri, potrebbero indurti a passare giorni senza dedicarti a quella passione a cui tieni tanto (se ne hai una, se non la hai ti invito a farti qualche domanda), senza ridere con qualcuno, senza fare quella telefonata/visita a chi vorresti, senza oziare, o più in generale, senza il piacere di fare/non fare qualcosa che ti regali quello che tu consideri godimento puro.
Più giorni passi senza darti una ricompensa, più rischi di assomigliare ad una pianta che non è annaffiata.
Sai vero che fine fanno le piante senza ricevere acqua? Ora non venirmi a dire “si ma io sono una pianta grassa e le piante grasse possono stare anche senza acqua” perché parli ad una che è riuscita a far morire pure quelle, sebbene ne richiedessero molta meno delle altre …
Il darti una ricompensa quotidiana è un buon modo per conferire qualità alla tua vita in attesa di capire cosa sia meglio per te, nel medio e lungo periodo.
Una volta capito poi, hai solo da passare all’azione. Inoltre aumenta comunque anche la tua resa in ufficio. Non lo dico io. Le persone serene, lavorano meglio.
Richard Branson, fondatore della Virgin è balzato alle cronache per aver abolito gli orari di lavoro.
Lo fa per il bene dei suoi dipendenti? No, lo fa per il suo tornaconto, perché le persone serene lavorano di più e meglio e ha capito che il suo tornaconto dipende strettamente da quanto a loro volta, i suoi dipendenti, trovino soddisfazione nella loro vita in senso più ampio.
In Italia siamo anni luce da un modello simile, ma, per dovere di cronaca, lo riporto perché è un elemento informativo a sostegno di quanto dico.
Ricapitolo: ti ho fatto ragionare sulle conseguenze di lungo termine qualora tu, adesso, viva una situazione lavorativa che consideri insopportabile o insoddisfacente a contatto con un capo difficile.
Abbiamo vagliato diverse possibilità di scelta su come agire, ti ho parlato di come ogni giorno debba avere la sua ricompensa .
Adesso cosa fai, accampi scuse o ti muovi?
Esiste sempre una possibilità di scegliere. Ma le scelte siamo noi a crearle.
Non esiste meta che non sia stata raggiunta da chi aveva una motivazione forte e un obiettivo ben preciso in mente.
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Federica Crudeli

UN GIORNO LO FARÒ: IL TEMPO TI È NEMICO ? Parte II
Ciao e Benvenuto a Lavorare col Sorriso!
Sei convinto che la gestione del tempo e dello stress abbiano nulla a che fare con la tua sicurezza interiore (o centratura)? Sbagli, e anche tanto! Scopri invece come la tua sicurezza interiore o centratura impatta significativamente sulla possibilità di ridurre lo stress investendo energie e tempo in attività e rapporti lavorativi in modo coerente con te stesso, i tuoi principi, valori e il tuo scopo nella vita.
[Tweet ““Ciò che abbiamo dietro e davanti a noi è irrilevante rispetto a ciò che abbiamo dentro” – cit. O.W. Holmes”]
Ti parlo della gestione del tempo e dello stress da questa particolare angolatura perché credo che possa essere un presupposto indispensabile per trattare poi questi argomenti con delle vere e proprie tecniche.
Di fatti questo articolo è la prosecuzione del precedente “Un giorno lo farò: il tempo ti è nemico? – Parte I” , che ti consiglio di leggere prima di questo se ancora non lo hai fatto, nel quale ti ho guidato in una riflessione potentissima sul tuo senso di scopo nella vita.
Di conseguenza adesso sai come vale la pena investire il tuo tempo, giornata lavorativa compresa, ed anche i rapporti lavorativi secondo un ordine di importanza, che immagino adesso sia diverso o più chiaro di prima.
Nel primo articolo ho infatti posto le basi per una gestione del tempo e dello stress davvero efficaci!
Proseguo con la metafora della macchina (che ho appreso da uno psicoterapeuta): se nel precedente articolo ti ho guidato a scoprire dove vuoi andare con la tua macchina (scopo, direzione, mission) in questo invece ti faccio riflettere sulle dotazioni necessarie e sufficienti che è bene abbia il motore della tua macchina per affrontare il viaggio verso la tua meta senza sottoporlo a continue sollecitazioni inutili, fonti di perdite di tempo e aumento dello stress.
Quando il tuo motore (cioè TU) va in sovraccarico?
Ad esempio ogni volta che hai la tendenza al controllo del mondo esterno ovvero quando prima di partire per il tuo viaggio pretendi di affittare tutte le betoniere e asfaltatrici presenti in commercio e andate a tappare tutte le buche delle strade dissestate fino al traguardo, a rifare i cordoli, la segnaletica, a riposizionare i semafori oppure quando guidi guardando solo fuori dal finestrino quasi a garantirti lo schianto.
Tradotto fuori di metafora?
Pensa a tutte le volte che le tue azioni sono eccessivamente condizionate dal temere cosa pensano il capo, il collega, il collaboratore, dal timore del rifiuto o di non piacere, dall’ansia di apparire perfetti, dalla paura di ammettere o commettere gli errori, dalla rabbia o vergogna per aver sbagliato, tristezza o paura se qualcuno non asseconda le tue aspettative.
Agire con questi condizionamenti pensi equivalga ad una buona gestione del tempo e dello stress?
In tutti questi casi involontariamente molto probabilmente manipoli il mondo esterno al fine di controllarlo: armato di asfaltatrice e cemento sei lì che tenti di rendere lisce lisce tutte le strade che ti trovi di fronte.
Come? Ad esempio tutte le volte che di fronte a parole/comportamenti che non gradisci di un collega ti esprimi con un “tu mi fai arrabbiare” invece che con un “io mi sento arrabbiato per come ti sei comportato”.
Ti sembra sottile la differenza fra il guardare a te stesso e il guardare fuori?
Peccato. Perché è abissale. Ogni volta che accusi un collega di essere la causa di un tuo stato d’animo non solo eviti di pensare alla responsabilità/capacità che hai di scegliere una risposta ad un comportamento esterno altrui, (magari anche l’ indifferenza), non solo gli stai dando un enorme potere su di te, ma, in fondo stai anche avanzando la pretesa che quel collega debba comportarsi diversamente, per evitare che sia la causa della tua rabbia.
Manipoli e pretendi di controllare il prossimo, spesso, per indurlo ad essere così come fa piacere a te senza crearti alcun disturbo.
Questa è una gestione del tempo e dello stress pessima!
C’è solo un piccolo problema. Che nessuno di noi può alcun tipo di controllo su alcuna cosa vivente al di fuori di se stesso.
E’ di una banalità sconcertante il concetto, ma, se è così, ti chiedo di essere onesto con te stesso e di riflettere su quanta parte del tuo tempo lo spendi a “ripensare” a fatti spiacevoli accaduti, o nel tentativo di controllare, manipolare, cambiare qualcosa che è esterno alla tua persona: quel collega che vorresti più affabile, simpatico, silenzioso, il capo più disponibile … etc.
Insomma in media quanto tempo spendi ad accettare cose e persone per come sono e regolarti di conseguenza e quanto invece ne spendi nella fissazione di voler piegare la realtà esterna al tuo volere o a rivivere nella tua testa episodi lavorativi spiacevoli?
Bene. A cosa ti serve disperdere il tempo in questo senso? La riposta è solo una. Niente.
La differenza fra un atteggiamento e l’altro, di cui ti ho parlato anche nell’articolo “Conflitti sul lavoro: li risolvi o cerchi colpevoli?’” è la stessa che c’è fra l’essere persone proattive o reattive:
- I PROATTIVI si concentrano sulla loro SFERA di INFLUENZA ossia su fattori che possono essere da loro trasformati;
- I REATTIVI si focalizzano sulla SFERA DEL COINVOLGIMENTO ossia su debolezze altrui, problemi ambientali e circostanze sulle quali non hanno il loro controllo.
Quand’è quindi che la gestione del tempo e dello stress avviene efficacemente?
Quando, ogni volta che sei in difficoltà in una situazione, se invece che volgere lo sguardo fuori, lo rivolgi al tuo interno, verso i tuoi principi guida, i valori che sono per te importanti e che ti aiutano a ridimensionare subito situazioni e problemi e a trovare la forza per affrontarli, abbattendo di conseguenza anche lo stress.
Fritz Perls nel suo libro “La terapia Gestaltica parola per parola” spiega bene nelle sue prime 80 pagine questo concetto dello sguardo rivolto al proprio interno e all’avere fiducia in se stessi, che in Bioenergetica è assimilabile ai concetti di centratura e “grounding”.
Tu dirai…beh ma come si fa ad avere così tanta fiducia in se stessi?
Occorre che tu abbia presenti i tuoi valori, le cose che ritieni importanti realizzare e il come vuoi realizzarle, avere ben presenti i tuoi criteri rispetto ai quali “misurarti”e identificare la tua centratura, il tuo nucleo immutabile, i fattori che sostengono la tua vita: ascoltati, accettati e poi seguiti!
Agendo in questo modo non avrai più la necessità di dover disperdere tempo ed energie per incasellare le situazioni e le persone in qualche categoria precostituita che ti dia un falso senso di sicurezza e protezione vivendo l’illusione della prevedibilità altrui, e non avrai più la necessità di stressarti in questa lotta ai mulini a vento, persa in partenza.
Adottare questo atteggiamento mentale non significa passare il resto della vita in uno stato ebetale di felicità perenne. Sarebbe ipocrita affermarlo.
Ma avendo una meta ben precisa in testa, ed una propria centratura il tempo così investito avrà più valore di un tempo investito cercando continue rassicurazioni, certezze, prevedibilità nel mondo esterno.
Ripensa al tempo che hai speso a torturarti per discussioni o situazioni spiacevoli, con colleghi, capi, amici.
Inquadrandolo adesso, riperderesti il solito tempo o lo useresti, insieme alle tue energie, per uscire da “situazioni di empasse” restando focalizzato sulle cose per te davvero importanti e sulle possibili soluzioni?
E ti dà una idea dell’ordine di priorità che vuoi che alcune situazioni/persone abbiano nella tua vita lavorativa o no?
Tu quanto ti valuti proattivo o reattivo rispetto alle situazioni che affronti? Ci sono circostanze in cui adotti approcci diversi? Se si, in quali circostanze, in che modo e per quali motivi sei reattivo o proattivo?
Hai messo a fuoco i tuoi principi, valori e fattori che pensi ti sostengano nella vita? Hai trovato la tua centratura? Cosa aspetti a farlo?
Pensi di voler trasferire un po’ della tua proattività dalle circostanze in cui la agisci più agevolmente alle circostanze in cui ti viene più difficile praticarla?
In metafora ti ho parlato di quale sia il nucleo che serve a far funzionare bene il tuo motore e ti ho spiegato la differenza che esiste fra le persone che, in viaggio verso una meta, perdono tempo ed energie ad asfaltare tutte le buche lungo il percorso, da quelle che invece li investono ad aggiustare l’assetto della propria macchina per affrontare qualsiasi viaggio.
Questo è il presupposto indispensabile da conoscere per una gestione del tempo e dello stress intelligente!
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Federica Crudeli
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